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“Durante la guerra i palloni non si trovavano tanto facilmente, tanto è vero che mio papà era andato a Brescia ed era riuscito a trovare una palla così, nera, e me l’aveva comprata. Io, entusiasta, scendo in cortile a giocare ma con un calcio maldestro il pallone va giù dove passavano i carretti del Mafinì che entravano alla Beretta e col continuo passaggio delle ruote si erano fatti dei canali, il pallone si era infilato lì e proprio in quel momento è passato un carretto e l’ha schiacciato. Quel pallone era durato quattro ore e mi ricordo il piangere che ho fatto. Era tagliato quasi per metà. Vado da mio papà e gli dico cerca di accomodarlo. Allora c’erano delle pezze per la bicicletta e ha usato quelle, però non si poteva più gonfiare ed è rimasto floscio finché poi l’ho buttato via. Questa è una delle mie prime delusioni calcistiche”.
Tino Camplani è del ’33 e a quel tempo avrà avuto si e no dieci anni. Dice che a quell’età non si sentiva molto la guerra, se non fosse per alcuni bombardamenti, come quello che quasi centrava la scuola, o quello in cui fu colpita la fabbrica Beretta. Erano i grandi a sentirla peggio, sia perchè era loro il compito di trovar da mangiare, sia perché si doveva decidere da che parte stare. Tutti stavano attenti, comunque: alla vecchia caserma c’era una sbarra e un presidio militare con una mitragliatrice ed un tenente forse delle SS con un alano, che Tino guardava con un po’ di paura quando passava di lì.
“Da ragazzo - continua Tino - giocavo a calcio tutti i giorni quando andavo alla colonia Beretta in Maniva. In un prato quasi pianeggiante facevamo delle porte con dei rami e usavamo sempre un palla da tennis. Un anno, doveva essere stato il 1945, è stato su in vacanza anche il commendator Pietro Beretta e lui voleva vedere giocare: si sedeva fuori dal suo appartamento e diceva ragazzi giocate! Noi giocavamo sia a pallone sia a pallamano. Alla squadra vincitrice Pietro Beretta dava cinque lire ciascuno e io quell’anno sono venuto giù abbastanza ricco, con 25 lire. Erano i giorni della caduta di Mussolini e su avevano telefonato per avvisare del fatto; la sera, prima di andare a dormire, le suore ci facevano dire le preghiere e quella volta abbiamo pregato anche per Mussolini, sono forse uno dei pochi che ha pregato per lui”.
Dopo la fine della guerra tutto questo è sparito. Tino stava giocando a pallamano in vicolo Bertarini e sentiva la radio che diceva è finita la guerra! è finita la guerra! E dopo la Liberazione si poteva tornare a giocare per le strade con meno preoccupazioni, ma ci voleva un pallone. I primi mesi c’erano gli inglesi che erano più tedeschi dei tedeschi e non si poteva andare vicino; poi sono venuti gli americani che erano tutt’altra cosa, fanciulleschi nei loro atteggiamenti, molto democratici, ti facevano giocare a base-ball, e quando passavi ti davano anche qualcosa da mangiare. Un po’ alla volta son cominciati a circolare i primi palloni, quelli di una volta, che sembravano delle bombe, di cuoio, con una cucitura sotto la quale si piegava la valvola della camera d’aria e che era un po’ un pericolo per quelli che giocavano di testa perché se la prendevi sulla fronte ti lasciava il segno. Palloni di quel tipo ogni tanto si rompevano e capitava perfino che certe partite fossero sospese per mancanza di palloni di ricambio, come quella volta tra Gardonese e Juventus, che se ne ruppero ben tre consecutivamente. Dopo il terzo incidente la Gardonese - che giocava fuori casa - decise di ritirarsi, e meno male perché stava perdendo 9 a 1.
Dopo la guerra ricominciano insomma anche le attività sportive. Riapre la palestra, si fanno degli incontri di box, si riprende a sciare in montagna e l’attività in piscina al centro sportivo “Redaelli”. Era un bel centro sportivo per quei tempi, in cui i centri sportivi erano molto rari. La piscina era stata pulita, erano stati tirati fuori i pesci, che ce n’erano dentro di lunghissimi e quando l’hanno pulita sono andati a casa tutti con i secchi pieni di pesci: infatti dal Mella c’era un canale che portava l’acqua alla fucina Mandora, ma prima riempiva la piscina, lo sfioratore in fondo non permetteva a tutti i pesci di uscire e quindi, in quei due o tre anni di fermo, erano diventati belli grossi.
Dal fronte tornano anche tanti calciatori, giovanotti che avevano già anche venticinque anni, e riprendono le partite, sia al campo “Redaelli”, sia all’oratorio S. Filippo, in via don Zanetti, dove c’era un campo un po’ malsagomato, fatto a “L”. Lì al campo a “L” Tino ha visto a giocare le prime volte; ci andava la domenica, anche lui a giocare a pallone, ma soprattutto ad altri giochi, come a “passo”, una specie di giostra formata da un palo con delle corde che gli girano intorno e nelle quali infili una gamba, si doveva girare di corsa finchè non si riusciva a sollevarsi da terra. Oppure si giocava a “ciche”.
Lì all’oratorio, al calcio i bambini giocavano sotto il portico - allora aperto - dove oggi c’è il salone della sede dell’A.V.A. Si giocava con la palla da tennis, come se fosse stata in proporzione al campo. E c’erano già alcune stelle del calcio. (2 - continua)
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