Tenevo da parte l’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters quale risorsa ultima. Qualora avessi esaurito gli argomenti a mia disposizione per riempire in modo non banale il sudoku sudato di questa pagina, avrei avuto l’opportunità di cavare l’asso dalla manica, il fantasma dall’armadio,
il dead man ambulante, l’uomo morto sandwich, che stigmatizza la propria vita con una manciata di versi su una lapide di marmo. Rinuncio volentieri, per ora, a parlare dell’antologia più letta negli Stati Uniti e in Italia, pur di dare la possibilità ad un poeta valtrumplino Andrea Bertussi di raccontarci attraverso alcune riuscite poesie la sua personale Spoon River.
Fu Fernanda Pivano con la complicità di Cesare Pavese ad attirare su Masters l’attenzione di giovani sempre più insofferenti nei confronti di un’alterazione di valori umani travestiti da eroismi.
Tutto ciò in Valtrompia non è possibile. In valle si monumentano i fabbricanti d’armi, i costruttori di mine, i fonditori di bombarde, e i forgiatori di baionette.
È talmente forte il culto del lavoro qui e nella valle limitrofa del Gobbia (che mio figlio chiama con sottile ironia Lumes’Angeles) da lasciare spazio a poco altro. L’uomo medio di questo contesto territoriale potrebbe essere sintetizzato con un’unica frase: “Mi avvalgo della facoltà di non pensare”. Ma, bando alle “trance”, diamo spazio ad una persona che si è ribellata al buonismo imperante impugnando la penna come una vanga, dissotterrando l’ipocrisia del nostro quotidiano.
Le sue poesie non hanno titoli, non servono, i suoi versi sono eloquenti, amari, desolati, e sfortunatamente, poco confutabili.
Ma la gente… io ne ho sentite di storie, soprattutto quando stavo dietro il bancone del bar; ci sono i tipi di tutti i paesi, ci sono le eccezioni… c’è chi è andato lontano ed è tornato ricco, povero, morto, c’è chi si nota subito e chi dall’ombra passa alla tenebra, ci sono tutti i personaggi per tragedie, commedie, per romanzi ed epopee… io mi siedo e ascolto qualcuno sussurrare mestamente la sua tristezza; nell’intimo di ciascuno c’è questo senso di vuoto, di mancata realizzazione, nonostante le ville, il sole, le banche; ci sono mondi che mi incuriosiscono, altri che mi disgustano e il mio paese è in sé tutta la terra, tutto l’inganno, tutto il disincanto…
Ho edificato condomini
più duraturi del bronzo
che resteranno in piedi
al crollo delle piramidi
brutti alla vista ma
con tutte le comodità.
Ho mandato i figli all’università.
Ad ogni speculazione ero presente
sempre lesto ad arraffare.
Ho sottovalutato il fegato
e la morte mi colse sbronzo.
Quale tramonto per i miei domini?
La nera signora
mi colse lontano
in terra straniera
con un fucile in mano.
Difendevo la mia casa
da fedeli esaltati
sventravano ogni cosa
su mia moglie eran balzati.
Sparai all’impazzata.
Ne uccisi forse uno.
Nel paese mi han riportato
dagli affetti separato.
Qui non conosco alcuno.
Non ho fatto nulla d’importante,
niente per cui essere ricordato,
nessun scheletro nell’armadio.
Nato da stirpe ricca
avrei cambiato il mondo
dicevano, almeno.
Avrei condotto fabbriche,
aperto supermercati,
sposato principesse,
generato altri eroi.
Invece nulla.
Sui libri ho consumato
l’età ardente d’immenso.
Dietro il velo di Maia
curioso ho sbirciato.
Ciò che per poco vidi
per sempre mi ha atterrato.
Lento nell’ombra
ho chiuso la vita.
Tra capre e pecore
maiali e anatre
mucche e galline
sterco e fieno
sono nato e vissuto.
Il sole sorge e tramonta
le stagioni passano
gli animali partoriscono
questo solo conta.
Quando ho sentito sull’erba brinata
I passi della vecchia rinsecchita
Ho pensato che le bestie
Sarebbero rimaste sole.
Ciò che lui mi fece consapevole,
nel verde caldo di giugno,
inconsapevole ho permesso,
come gioco mai giocato.
Che ne sapevo del ventre che cresce,
delle grida di mia madre?
Il frutto vidi come in sogno
del peccato mai ammesso,
mani protette reggevano
il suo pianto, in una primavera
priva di balocchi.
Spegneva la luce
sfilandosi la cintura,
e noi correvamo sotto il tavolo
urtando le sedie e il gatto.
Afferrava sempre qualcuno
attardato dalla paura,
schiocchi e gemiti, più forti
del brontolio del nostro stomaco.
Poi sedeva soddisfatto
in poltrona, a cercare
il fondo della bottiglia,
allora noi strisciavamo
lesti in cortile,
sperando che il cane
avesse lasciato qualcosa.
Gli sparai
con l’arma d’ordinanza.
Mia madre osò piangere
lacrime dagli occhi pesti.
Ricordi? Ti dissi sì,
scendendo verso il fiume,
ma stornai lo sguardo
nascondendoti il perché.
Come potevo disselciare
la strada di dieci anni
percorsa insieme?
T’occultai l’amante
e a me lo negai
a lungo…
quando osasti lo schiaffo,
mi ripresi la briglia
d’una vita sacrificata.
S’inerpicava aspro
nell’intrico di rovi
che mi ferivano le braccia
e il volto, il sentiero
antico quello usato
troppo a tiro del nemico.
Lo perdevo nella tenebra,
già carponi tornavo
a sentirlo, ma troppi schiocchi,
e speravo una sicura latebra.
Spuntai dov’era sanguinante
l’amico e il compagno,
gli strisciai a lato
sussurrandone il nome
ma naso e tatto s’accorsero
del ritardo sulla falce.
Travolto dalla sofferenza
trascurai lo scricchiolio,
una bocca s’impresse
sulla madida tempia,
non gioco tra amanti
ma ordinata sentenza.
Che età può avere amore,
quale prezzo?
Chi crederebbe al singhiozzo
Di una ragazzina?
Non certo il padre
tra vino e settebello.
Non la madre tra fornelli
e marsala.
Parlare al professore, anche lui
scarso padre?
Credere al tartarico fuoco
del confessore?
Perché pensate al mio corpo
abbandonato e penzolante,
e non al vostro orecchio sordo?
Quando entravo nelle case altrui,
valigetta in una mano, l’altra la stringevo
al parente preoccupato per il malato
che mi accoglieva sempre con un colpo di tosse
e tossivo anch’io per empatia, sedendomi
al capezzale sciorinando la solita litania.
Sulle mie spalle occhi attenti, scrutatori,
pronti ad accusare la ria sorte vessatrice
dopo il verdetto quasi sempre velante
una più spiacevole verità.
Quei brandelli di cose non dette
s’ammassavano in me,
immondizia progressiva,
culto di un male che adulto
fissò lapidario l’ora in cui la sveglia
avrebbe trillato annunciandomi la dipartita.
Da bravo devoto di Esculapio non indulsi
nel mio compianto ma continuai a passare
d’uscio in uscio affogando la mia
nelle vostre malattie.
…così, si viene presi per incantamento tra le maglie dell’indifferenza, perché l’unica vera verità è che si muore dopo averla scontata, la morte, vivendo. E che importano più gli appuntamenti, gli orari e i piani di volo… pindarico o terroristico, se non si riesce più ad ascoltare il rumore del mare, il tuono dopo il lampo e i clacson degli imbecilli? Che senso ha ormai tendere l’orecchio quando non si ha voglia di capire? Il mio paese, la mia realtà sono io, demiurgo dell’illusione quotidiana di poter vivere, affrancato dal sapersi caduco e nullo; ferma la capacità di credere alle fole, s’arresta l’ingenuità che induce a credersi superiori.
Non si sentono più voci …il teatrino chiude i battenti.
Andrea Bertussi
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