Ho vissuto alcuni anni della mia infanzia in un “Ruc”. Non esiste la versione italiana di questo vocabolo dialettale, forse perché è caratteristico solo di alcune valli del Nord. Il “Ruc” è solitamente un appezzamento di terreno di piccola entità, dai quattro ai seimila metri quadri. Metri sottratti uno per uno alla boscaglia. Disboscati e dissodati da migliaia di ore di lavoro, trasformati in pascoli, frutteti, e vigneti. Solitamente dislocato appena fuori il paese, ai piedi delle montagne o delle colline.
Una piccola oasi pedemontana, autosufficiente, nel mio caso gestita dal nonno “Tone”, diminutivo di Antonio. Un uomo capace di costruire una sedia o una scala, fare il salasso ad una mucca, curare una pecora, scuoiare un coniglio in pochi minuti, costruire un cappio per volpi con un cavo metallico di scarto, innestare un castagno, e farsi rispettare da fascisti e partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ricordo, che in quel fazzoletto di terra c’era di tutto: ciliegie, susine, prugne, mele, pere, viti, castagne, nespole, e animali. Due mucche, un maiale, una decina di pecore, una dozzina di conigli allo stato brado, un cane di nome Brik, e un grande serraglio con galline e tacchini.
Io non so dirvi se le galline siano o non siano intelligenti (vedi articolo qui a fianco, ndr), so per certo che i galli sono combattivi e feroci. Lo provai sulla mia pelle, quando dietro ordine del nonno materno dovetti entrare nel pollaio a prendere le uova fresche. Mi trovai davanti ad un gallo alto quasi quanto me, con la cresta e i barbigli rossi come il sangue che colò copioso dalla mia fronte dopo un solo rapido colpo del suo becco. Fuggii, velocemente e vigliaccamente, pieno di rabbia e di livore, paventando le ire e il sarcasmo del nonno. Con uno scatto d’orgoglio, prelevai dalla cucina deserta un asciugamano, lo ridussi in strisce, mi disinfettai con dell’aceto, e mi fasciai la fronte. Forte dell’immagine che lo specchio rifletteva, un piccolo Apache con il volto striato di sangue, presi un bastone di circa mezzo metro di lunghezza e tre centimetri di diametro, il coperchio di una vecchia pentola, da usare come scudo, riaprii il cancello, e tornai nell’arena. Due colpi ben assestati ridussero alla ragione il re del pollaio, e da quel giorno conquistai il diritto di raccogliere le uova senza temere alcunchè.
Entrambi avevamo imparato qualcosa. La poesia che segue l’ho scritta pensando a quei tempi meravigliosi quando l’uomo era l’unico artefice del proprio destino ed a mia nonna, morta a soli cinquantasei anni, alla quale dedico con grande affetto la poesia che segue:
NONNA
Nonna,
io nacqui a due anni,
con dentro gli occhi il tuo sorriso,
e tra le dita
dadini di polenta
unti nell’intingolo di un coniglio da tana.
Nonna,
capelli bianchi a crocchia
incorniciavano il tuo volto,
e quegli occhi
color pelle di frassino,
opachi di presentimenti.
Nonna,
dopo soli due mesi
le mie labbra tremanti
singhiozzarono il tuo epitaffio:
“Uomini cattivi
l’hanno portata nella Casa Bianca”.
Joe Dallera p> |