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 Nr.12 del 26/05/2008
 
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La società spot
È un fatto: viviamo in una società di "frammenti", nella quale si valorizza il dettaglio insignificante. A scapito, spesso, delle cose


  


Si vive in modo esaltante la quotidianità. Si dànno, si attribuiscono, significati e un valore eccessivo a delle cose, o a delle idee, che in realtà sono di poco conto. Insomma, poiché cade la sostanza, ci si dedica al particolare. Ecco perché si vive in una società di frammenti. In altre parole, noi funzioniamo a pilloline. Significa che i discorsi sono sempre più brevi. I periodi non esistono più. Meno che mai si usano i relativi. L'esempio di questo linguaggio è la televisione. Che dispensa una comunicazione in pillole. Dove gli spazi sono sempre più ristretti. E tutto si conclude in pochi attimi. Come in uno spot. Che pertanto è l'ideale di questa società. Infatti, lo spot è l'esaltazione del frammento.
La "forma mentis" di questa società è simile a quella dello schizofrenico. Il cui processo tipico è l'incapacità di percepire il reale e invece si fissa sui dettagli. Lo schizofrenico dà cioè una importanza enorme ad un piccolo segno e, invece di ridurlo (o considerarlo) su un piano relativo, lo esalta. E lo assolutizza. Ecco perché, ad esempio, hanno tanto successo (oggi) gli Sms: con essi, la parola viene svuotata di ogni contenuto. Diventa sigla. Oggi è sempre più impensabile un modo di scrivere che abbia ampi periodi. Oggi si scrive solo in pillole.
Ma la migliore esemplificazione del "comportamento spot" è il videogioco. Un fenomeno che non ha contenuti. Ha solo una serie di comportamenti frammentati. Infatti basta schiacciare i pulsanti e ognuno di essi introduce a una serie di spot. Una parola, questa, che rimanda in modo inevitabile alla pubblicità e al suo modo di comunicare.

La pubblicità è in grado di costruire un messaggio dal nulla. E sul nulla. Su un particolare insignificante. Il messaggio pubblicitario è diventato pertanto l'esempio classico sul piano del linguaggio. La pubblicità come massimo esempio della esaltazione. Che è un atteggiamento mentale che si costruisce sul nulla. Su di un dettaglio. Su un frammento. Su un particolare cui viene attribuito un (falso) valore. Naturalmente l'esaltazione non è legata alla età. Anche se è vero che i giovani sono più esaltabili degli adulti, ma questo perché (in genere) sono meno "strutturati" sul piano psicologico. Ma, di fatto, l'esaltazione è il frutto di una personalità fragile e immatura. Che fantastica continuamente.

Freud, in uno dei suoi famosi saggi sull'arte "Il poeta e la fantasia", del 1907, lo dichiara apertamente: «L'uomo felice non fantastica; solo l'insoddisfatto lo fa».
Questo modo di comportarsi – quello dello spot – ha coinvolto anche l'amore. Come dice bene il sociologo polacco Zygmunt Bauman, il suo «homo sexualis» non ha più la pazienza di costruire rapporti duraturi sopportando attese e frustrazioni. Così, lo standard dell'amore si è abbassato. Come dire che al desiderio – che necessita di tempo e pensiero – si è sostituita la semplice "voglia" che deve essere soddisfatta immediatamente, secondo il modello dello spot, appunto.
Insomma, la situazione si mostra così: c'è un mercato che crea desideri. Questi diventano bisogni. Che, a loro volta, si tramutano in diritti. I quali vogliono (sempre) essere riconosciuti. È, inutile dire, un circolo vizioso.
Sono (in gran parte) le tecnologie biomediche e cosmetiche che stimolano l'idea che, modificando il corpo, si modifichi anche l'identità. Così, su questo corpo, si esercitano infinite possibilità di modificazione e di cambiamento. È in tale frangente che la sessualità diventa (quasi) un dettaglio: messo in vetrina, il corpo rinnega tutto il simbolico e si accontenta della prestazione.
A fronte di tutto ciò, la sessualità piena e realizzata, quella che sa combinare specie, cultura e immaginazione, conserva le sue coordinate in nicchie di pensiero separate. In attesa (forse) di tempi migliori.
E uno dei tanti rumori di fondo della vita quotidiana è la disattenzione. Sembra che la gente ascolti, ma (spesso) non è vero. Così come sembra che guardi. Meglio, la gente guarda e non vede. Così come sente e non ascolta. Perché ascoltare non è (semplicemente) "prestare l'orecchio". È farsi condurre dalla parola dell'altro là, dove la parola conduce. Se poi invece della parola c'è il silenzio dell'altro, allora ci si fa guidare da quel silenzio. Voglio dire che (troppo spesso) la gente non distingue né musica, né parole, né immagini. Tutto serve come riempitivo e diventa uno dei tanti rumori di fondo della vita quotidiana. È quello che Adorno chiamava "l'ascolto disattento". Siamo così pieni di segnali e di comunicazioni che finiamo per odiare il silenzio. E questo dice, più di qualsiasi altra cosa, quanto siamo nevrotici.


Ermanno Antonio Uccelli


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