Uno di quei luoghi magici, dove l’anima si ricarica senza trucchi o droghe.
Con un più dell’incoscienza che caratterizza i diciottenni, percorremmo alcuni tratti dei quattro chilometri che ci avrebbero portato ai piedi della montagna giocando al Barone Rosso. Io ero seduto sul bordo più esterno del cassone, facendo in modo che la cabina-carlinga e la ruota anteriore, fossero distanti circa un metro, un metro e mezzo da terra. Mentre il retro dell’Apecar sprizzava scintille, dal finestrino di sinistra, l’amico Claudio-Barone Rosso fingeva di mitragliare le rare automobili che incrociavamo. Cinque chilometri di strada cementata e cinquecento metri di mulattiera ci condussero alla meta. Un piacevole odore di fuliggine ci avvolse quando aprii la porta. C’era una discreta quantità di legna di fianco al focolare. All’esterno, un tramonto indescrivibile incendiava di rosso le cime delle montagne circostanti. La sera saliva lenta, il fuoco, alimentato da ciocchi di carpino, disegnava ombre danzanti sulle pareti calcinate. Ostie di salame e cucchiaiate di fagioli accompagnarono le chiacchiere e le risa. Verso le due di notte, della piccola catasta di rami, rimanevano solo due tibie di frassino incrociate. Fu allora che notammo sul fondo della lunga stanza ormai immersa dal buio, centinaia di piccoli occhietti rossi che avanzavano verso di noi. Topi, centinaia di topini di montagna marciavano lentamente ma inesorabilmente verso la nostra postazione.Indietreggiarono solamente quando gettai gli ultimi rami sulle braci. Mentre le ultime fiamme danzavano nel primo mattino, urgeva una soluzione veloce ed efficace. La lampada a gas era defunta da tempo, torce elettriche non c’erano, di candele e ceri rimanevano solo mozziconi. Furono questi, uniti all’istinto di sopravvivenza che risvegliarono la nostra fantasia. Recuperato ogni minimo frammento di cera, infilammo il tutto nelle vuote scatole di fagioli, appoggiandole sulla graticola. Sessanta vuote cartucce calibro sedici, sessanta stuzzicadenti, sessanta pezzetti di spago da salame ed un accurato riempimento, ci consentirono la fabbricazione di sessanta meravigliose candele che ci consentirono di attendere un’alba che ci avrebbe liberato dall’incubo di quei piccoli portatori di rubini falsi e di fame vera. Non pago dell’escamotage salvifico, l’amico Claudio dormì sul tavolo, dopo aver unto accuratamente le gambe dello stesso con del buon (sic) burro nostrano.
Come ci insegna la cattiva politica: “Fidarsi è bene, ma ungere è meglio”.
Joe Dallera |