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 Nr.14 del 16/06/2008
 
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''Le bose''
Sono un uomo di montagna, amo il profumo dolciastro dei fiori di robinia, e le nevicate di fine primavera che tappezzano i sentieri di petali bianchi


   Le “bose” in lingua italiana, sono le bottatrici, pesci commestibili d’acqua dolce, con corpo grosso anteriormente e compresso verso la coda.


Camminando sugli strati odorosi, ci si sente dei re ai quali la natura ha steso un candido morbido tappeto. Il bosco, la boscaglia, per tre stagioni ogni anno, sono suadenti, intriganti, inebrianti. Durante l’estate prendono le distanze, sembrano voler dire: “È un brutto momento, stai lontano, ci rivedremo in autunno. Lasciaci soli, abbiamo cose importanti noi e gli alberi da portare a termine”.
I bambini hanno orecchie sensibili, che sanno (o sapevano) ascoltare i messaggi della natura. Così era per me negli anni sessanta. Verso la fine di giugno abbandonavo il mio rifugio di frasche costruito su un castagno centenario, e mi trasferivo sulle rive del fiume Mella.
Avevo sette o otto anni, e l’estate era gravida di sudore e di magia. Era finita la scuola, e trascorrevo tutta la giornata a giocare nell’acqua, starnazzando come un’oca incosciente. Capitava a volte nel pomeriggio inoltrato, che un certo languore mi visitasse lo stomaco. A quei tempi, portavo sempre con me un piccolo coltello e dei fiammiferi.
Per curarmi dalla fame avevo due soluzioni: “Rubare le pesche dal frutteto del “Caino”, rischiando di brutto, oppure, armarmi di pazienza e acchiappare le “bose”. Gli adulti, pescavano questo pregiato pesce, o con grosse batterie da camion, o con bombe a mano. A me non interessavano i numeri, mi era sufficiente quietare la fame. Da bambini non si è schiavi della fretta, ed io battevo con dei piccoli ciottoli sulle grosse pietre, sotto le quali si nascondevano i pesci.
Tempo ne avevo, fortuna anche, e solitamente, verso l’ora della merenda, acceso il fuoco e costruito un grosso forchettone, con un pezzo di rete metallica sottratta “malandrinamente” alla recinzione metallica del campo sportivo dell’Oratorio, mi trovavo a banchettare con cinque o sei “bose” sfrigolanti.

Una storia banale, che sono contento di aver vissuto. Meno banale, anche se parla sempre di pesci, è la poesia che segue, vergata di proprio pugno da Jacques Prevért, meravigliosamente anarchico come sempre, che ha per titolo:



“LA FELICITÀ DEGLI UNI”

Pesci, amici amati,
amati da coloro che furono pescati in così grande quantità,
voi siete stati spettatori a questa calamità,
a questo evento orrendo,
a questo evento ignobile,
a questo terremoto:
“La pesca miracolosa”.
Pesci, amici amati,
amanti di coloro che furono pescati in così grande quantità,
di coloro che furono pescati, lessati, mangiati.
Pesci… pesci… pesci…
come avuto dovuto ridere,
il giorno della crocifissione.



Joe Dallera



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