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Evaristo Beccalossi… qualche anno fa |
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La coppia magica dell’Inter scudettata di Bersellini si è riunita per presentare il libro di Evaristo, la sua biografia scritta con la complicità di Luca Pagliari ("Mi chiamo Evaristo", Bevivino, pp. 207, euro 15). È un viaggio nella memoria per raccontare la storia di un ragazzo normale capace di cose straordinarie sul campo di gioco senza perdere mai di vista l'affresco italiano di sfondo, la fotografia d'epoca.
"Rimorsi? Nessuno - confessa il Becca -. Alcune volte sono rimasto male, ma quando ho appeso le scarpe al chiodo mi sono preso altre soddisfazioni". Alcune amarezze sono però difficilmente cancellabili "come per i Mondiali del 1982 quando mi aspettavo la convocazione. Bearzot me l'aveva fatto credere".
Sono mancate alla serata alcune presenze: il presidente del Brescia Corioni, ex compagni, i tifosi. Poca gente, ma qualificata come s'usa dire per circostanze del genere. Beccalossi ("Dribblossi", l'aveva battezzato Gianni Brera), fantasista del Brescia e poi dell'Inter negli anni '70-'80, centrocampista genio e sregolatezza, uno dei grandi interpreti della leggenda dei numeri 10, un virtuoso del calcio che sapeva come pochi nascondere la palla e servire assist al millimetro: questo era Evaristo, gnàro di San Polo, figlio di operai, che andava ad allenarsi con la "Graziella" e il papà lo andava a riprendere con la Fiat 128, piegando la bici e caricandola nel bagagliaio. E poi l'approdo alla squadra del Brescia, la simbiosi con Alessandro Altobelli, amico e compagno per la pelle, con cui costituì una coppia perfetta. Gli anni fulgidi a San Siro e quelli grigi, in sottofinale di carriera, in cui, per poter giocare, finisce al Barletta e al Pordenone, per riscoprirsi opinionista televisivo.
Altobelli afferma che "Evaristo ha dato molto al calcio, ma il calcio gli ha tolto molto. È stato il simbolo dell'Inter, ma questo non gli è bastato per aprirgli le porte della Nazionale. Nella sua stessa squadra c'erano dirigenti che ogni anno impostavano la campagna acquisti per comprare doppioni del Becca" (l'allusione è a Mazzola e Beltrami che portarono a Milano giocatori come Hansi Muller). Lui aveva i piedi magici e la testa fine: se non ti passava la palla, non era per egoismo, ma perché aveva capito che tu eri fuori tempo". Beccalossi e Altobelli hanno ricordato le atmosfere dei ritiri, i viaggi in automobile di notte dopo le partite in trasferta, il contatto più autentico coi tifosi, la dimensione romantica di uno sport che allora non conosceva ancora avvocati e procuratori al seguito. (f.pio)
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