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La composizione fotografica che presentiamo riguarda il momento della posa di una poesia di Joe Dallera dal titolo “A BRUNO il partigiano” sul Monte Sonclino il 19 Aprile 2000. In alto Joe Dallera pone la poesia vicino alla lapide dei Caduti del Sonclino |
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Ribelle lo sono sempre stato. Anarchico e disubbidiente pure. Ho frequentato quotidianamente il “catechismo” delle cinghiate paterne, punizioni senza cattiveria, che mi hanno piagato ma non piegato. Sono fuggito dall’asilo a quattro anni, ho bigiato scuola ad otto, contraffatto la firma di mia madre a tredici per giustificare le assenze. Mi sono costruito un secondo diario quando frequentavo alle superiori l’“Istituto Tecnico Industriale”. Uno per la famiglia, e uno per la scuola. La foto era fissata nella seconda di copertina, sul diario ufficiale, con due rivetti che riportavano la dicitura: Sigillo di garanzia. Su quello ufficioso: Caffè Jore Montichiari. Toglievo i sigilli dal sacchetto di miscela arabica consumata in famiglia, e li riposizionavo con grande cura sulla seconda foto. Due volte degradato da capoclasse ad alunno semplice per non aver segnalato i “cattivi scolari”. Retrocesso da caporalmaggiore a caporale, durante il servizio militare alla “Scuola di Guerra” per insubordinazione. Con questo curriculum, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, dopo l’otto settembre, avrei scelto di essere partigiano sulle montagne che ho sempre amato, piuttosto di qualunque altra situazione che mi imponesse una divisa e mi obbligasse a rinunciare alla libertà o a toglierla agli altri. Ma non è stato solo questo a spingermi a stendere un’antologia sulla Resistenza, che contiene, strana coincidenza, 25 poesie “partigiane” che parlano di persone “normali”, uomini che hanno contribuito, pur se in minima parte alla liberazione di questa amata e odiata Patria, ma anche la lettura della lirica di Carl Sandburg che chiude i suoi Chicago Poems: “L’uomo dalle dita spezzate”.
Quei versi tragici, toccanti, commoventi nella loro disperata semplicità, mi hanno convinto a dare il mio piccolo contributo per raccontare alcune delle storie di coloro che con rara sensibilità lo studente partigiano Teresio Olivelli chiamò: “ Ribelli per amore”.
Spero che la lettura della composizione che segue provochi in voi qualche emozione. Ne abbiamo bisogno, come abbiamo bisogno di consapevolezza e autocritica, la stessa autocritica che affiora nella lettera del giovane studente condannato a morte: Giacomo Ulivi. Una missiva fastidiosamente attuale che ci pone di fronte a responsabilità non più eludibili, pena l’abdicazione all’essere appartenenti e guardiani della Res Pubblica.
L’UOMO DALLE DITA SPEZZATE
L’ombra dell’Uomo dalle Dita Spezzate
discende dalle alte, verdi montagne di Norvegia,
attraversa l’Europa e il Mediterraneo.
Egli è vivo,
ci parla col muto linguaggio di dita perdute.
La sua storia, - così la narrano in patria -
la portò un norvegese sfuggito alle reti naziste.
Là, nei cuori, hanno eretto altari per lui,
per l’ignoto, che i nomi, i nomi, i nomi,
non volle dire ai nazisti.
“Parla, sbrigati, dicci quei nomi, i nomi vogliamo!”.
Ma l’uomo, solo, di fronte, li guarda muto negli occhi.
Trascorrono le ore, e i nomi lui tace.
Ore e ore, ma nessun nome per quelli della Gestapo.
Gli dissero allora: “Ti spezzeremo
come abbiamo fatto con gli altri.
Sferzargli il viso e il collo con il bastone gommato
che strazia senza lasciare tracce,
o concedere a lui l’onore del plotone,
la morte in un istante!”.
Ma tosto la Gestapo decise una sorte diversa.
“Parla, sbrigati, dicci quei nomi!
Quei nomi o … vedrai”.
Ma nessun nome venne.
Ancora egli tacque ogni nome.
Così gli spezzarono il mignolo della sinistra
e poi altre tre dita. E il pollice gli piegarono
indietro, fino a che fu rotto.
E ancora i nomi egli tacque.
Gli diedero un giorno e una notte per ripensarci.
Di nuovo gli chiesero i nomi, rispose il silenzio.
E gli contorsero il mignolo destro,
lo sradicarono, pendette nel sangue.
Pendettero le altre tre dita, scricchiolando.
Gli infransero l’osso del pollice.
Pensò egli allora ai violini?
Agli strumenti che più non avrebbe suonato?
Pensò ai lievi capelli di bimbo, o di donna,
che più non avrebbe accarezzato?
Al martello, alla penna, che più non avrebbe
impugnati? E ai guanti, ormai inutili?
Forse aveva sorriso pensando alla Gestapo,
ma ecco che in un istante,
gli avevano tolto persino la facoltà
di impugnare coltello e forchetta,
e più non poteva portarsi una tazza alle labbra,
ne fare una firma, tenendo stretta una penna
tra il pollice e le altre dita.
Ma questo non era tutto, il peggio doveva ancora venire.
Quelli della Gestapo avevano uno scopo preciso,
volevano la paura dei norvegesi,
volevano, che un mormorio di terrore,
dovunque facesse sapere quale fine attendesse,
chi voleva ostinatamente tacere.
“Per l’ultima volta, collabora!”.
Ma lui non disse quei nomi.
La lingua inchiodata, la sua volontà si opponeva
a quella dei carnefici. Era saldo il suo orgoglio,
salda la sua fede nella via degli uomini liberi.
Salutava la morte piuttosto che piegarsi.
E contro di lui scatenarono l’ultimo gesto di furia,
gli spezzarono il braccio nel gomito, e poi nella spalla.
E mentre chiudeva gli occhi, ancora vollero rompere
l’altro braccio nel gomito, e poi nella spalla.
Tutti i nomi scordò allora per sempre, anche il proprio.
Ma c’è gente come me, come voi, come altri,
che mai scorderà l’Uomo Dalle Dita spezzate.
La sua forza, il suo orgoglio di uomo libero sono vivi.
Ci scuote la sua ombra, parlano le sante dita.
Agli uomini esse ricordano mille e mille morti,
strazianti, angosciose, è meglio morire, che arrendersi
e dire sì, sì, sì, quando bisogna tacere.
Piuttosto sia benvenuta la morte, la morte che viene,
quieto cammino verso una tenera, limpida mezzanotte.
Carl Sandburg |