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 Nr.8 del 06/04/2009
 
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ASPETTANDO IL 25 APRILE
Da ''Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana''


   Giacomo Ulivi



  


Giacomo Ulivi: di anni 19, studente di terzo anno alla facoltà di legge dell’Università di Parma, nato a Baccanelli San Pancrazio il 29 ottobre 1925. Dal febbraio 1944 è incaricato dei collegamenti tra il CLN di Parma e il CLN di Carrara, nonché con ufficiali inglesi. Collabora all’avvio ed all’organizzazione di renitenti alla leva sull’Appennino tosco-emiliano. Catturato una prima volta ’11 marzo del 1944, riesce a fuggire rifugiandosi a Modena, mentre la madre viene anch’essa arrestata e sottoposta ad interrogatori e minacce. Riprende il lavoro organizzativo. È catturato una seconda volta dai tedeschi nei dintorni di Modena, riesce ancora a fuggire. Catturato una terza volta il 30 ottobre 1944 in via Farini a Modena ad opera dei militi delle Brigate Nere. Tradotto nelle carceri dell’Accademia Militare, e ivi torturato. Dapprima amnistiato, poi fucilato per rappresaglia il mattino del 10 novembre 1944, sulla Piazza Grande di Modena.

Quella che segue è una lettera che Gianni ha scritto agli amici tra il secondo e l’ultimo arresto.


Cari amici, dobbiamo guardare ed esaminare insieme: Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. Per riconoscere quanto da parte nostra si è fatto, per giungere ove siamo giunti. Non voglio sembrarvi un Savonarola che richiami al flagello. Vorrei che con me conveniate quanto ci sentiamo impreparati, e gravati da recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto, noi dobbiamo rifare. Tutto, dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete, perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia ed al lavoro? Benissimo, è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà, nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è lavoro di “specialisti”. Duro lavoro, che ha le sue esigenze. E queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro o grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci ed ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può, a chi deve; voi lavorate e credete, questo dicevano. E quello che facevano lo vediamo ora che nella vita politica (se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri) ci siamo scaraventati dagli eventi. Qui sta la nostra colpa, io credo. Come mai, noi italiani, con tanti secoli di esperienza, usciti da un meraviglioso processo di liberazione, in cui non altri che i nostri nonni diedero prova di qualità uniche in Europa, di un attaccamento alla cosa pubblica, il che vuol dire a se stessi, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? In che cosa abbiamo creduto? Ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente ed intellettualmente. Questa ci ha depredato, buttato in un’avventura senza fine. Il brutto è, che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi, la “cosa pubblica” è noi stessi; ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come “patriottismo” o amore per la madre che in lacrime e in catena ci chiama. Visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro. Insomma, che ogni sua sciagura, è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? Per egoismo?
Sempre, tutte le pillole ci sono state propinate con il dolce intorno; tutto è stato ammantato di retorica.. Facciamoci forza, impariamo a sentire l’amaro; non dobbiamo celarlo con un paravento ideale, perché nell’ombra si dilati indisturbato. È meglio metterlo alla luce del sole, confessarlo, nudo, scoperto, esposto agli sguardi: vedrete che sarà meno prepotente. L’egoismo, dicevamo, l’interesse, ha tanta parte in quello che facciamo, molte volte si confonde con l’ideale. Ma diventa dannoso, condannabile, maledetto, proprio quando è cieco, in intelligente. Soprattutto quando è celato. E, se ragioniamo, il nostro interesse, e quello della “cosa pubblica”, finiscono con il coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassioniamo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, alla quale tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sappiate, che con calma, cominciamo a guardare in noi e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo, “perché non né avuto voluto più sapere!”
Questo ed altro dovrete chiedervi. Dovete convincervi, e prepararvi a convincere, non a sopraffare gli altri, ma neppure a rinunciare. Oggi bisogna combattere l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti. Ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi e il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi.


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