È stato un grande capo orientale. Fondatore dell'Impero mongolo. Il suo nome risveglia paure ataviche. Il suo vero nome era Temucin, ma veniva chiamato Gengis Khan. Un nome che si porta dietro rumore di spade, scalpitìo di cavalli, odore di conquista. E attraverso il quale affondiamo nel terrore dei nostri antenati. Il personaggio è indubbiamente affascinante e ci rallegriamo di scoprire che, per lui, l'Occidente non varcava i confini del mondo islamico.
È incerta la data di nascita di questo imperatore barbaro, anche se gli storici optano per il 1165 circa. La data di morte invece è certa: 1127. Perì durante una spedizione di guerra nel Kansu. Con ciò concludendo un’esistenza da narrazione poetica delle sue gesta eroiche in linea con i principi del nomadismo. Perché, a quest'ultimo, egli non rinunciò mai. È pur vero che, per primo introdusse la scrittura e creò un codice di leggi, ma sempre, decisamente, rifiutò di dedicarsi stabilmente ad una economia stanziale. Intanto perché i nomadi mongoli erano convinti della loro superiorità nei confronti di contadini e artigiani. Poi perché avevano uno stile di vita che era basato sulla guerra, la razzia, la conquista, l'allevamento dei capi di bestiame. Uno stile di vita di fronte al quale i contemporanei non potevano non rabbrividire. Un’eredità non certo esaltante.
Dopo una serie di guerre, Gengis divenne signore della Mongolia. Nel 1206. Nel 1211, batté la Cina e conquistò Pechino quattro anni dopo. Assoggettò la Russia fino al Dnepr, devastò la Polonia e l'Ungheria e si rivolse poi contro Persia e Afghanistan, nel periodo dal 1218 al 1225. Periodo quest'ultimo nel quale il mondo musulmano fu terrorizzato dalle sue incursioni contro la dominazione dei Selgiuchidi e il califfato di Baghdad. L'Europa cristiana sperò addirittura di trovare nei Tartari degli alleati nella guerra contro l'Islàm. Alla morte, Gengis Khan lasciò un vastissimo impero, che venne diviso tra i suoi figli.
Era un perfetto organizzatore di eserciti e fu pure un buon legislatore e amministratore. Aveva fama di uomo crudele: in realtà era un uomo primitivo che però aveva uno spiccato senso della giustizia, seppure rudimentale. L'adulterio veniva punito con la morte. Ma l'imperatore promulgò anche leggi che non contemplavano alcuna severa punizione per l'omicidio.
Come ogni governante che si rispetti, fu assai bravo nell'esazione dei tributi. Ad esempio, quando strappò alla Cina i territori del Nord. Favorì il commercio e fu scaltro nelle faccende diplomatiche. Di lui impressionano le capacità politiche, perché non si deve mai dimenticare che, nelle sue vene, scorreva il sangue di antenati come Kutula, la descrizione del quale ci arriva così: «Con le sue mani, simili alle zampe di un orso, poteva spezzare senza fatica la spina dorsale dell'uomo più forte, quando di notte dormiva vicino al fuoco dell'accampamento e i carboni ardenti cadevano sul suo corpo non vi faceva caso; se si svegliava pensava lo avessero punto i pidocchi, si grattava e si riaddormentava. Durante i pasti mangiava un montone di tre anni […] senza comunque riuscire a saziare la sua fame».
E Gengis Khan dimostrò anche tutto il suo raziocinio. Infatti non diede ascolto ai mongoli conservatori. Questi proposero di trucidare tutti i conquistati per trasformare le ricche coltivazioni in pascoli. La mancata esecuzione di tale provvedimento, dimostrò la lungimiranza di questo imperatore.
Vagamente ricorda la famosa «guerra dei passeri» che, sette secoli dopo, avrebbe occupato il rivoluzionario e statista cinese Mao Tse-tung. L'illustre dittatore era assai preoccupato per le perdite di riso provocate dall'appetito dei volatili. E diede un ordine: sterminarli. Cosicché la popolazione si aggirava nelle risaie battendo dei tamburelli. Giorno e notte. I passeri, spaventati non si posavano mai. E neppure si cibavano. Cosicché, per lo sfinimento, caddero a terra morti. L'anno successivo, il raccolto fu decimato. Ci pensarono gli insetti che, senza i loro più diretti predatori, e notoriamente più nocivi di questi, invasero le coltivazioni di riso.
Gengis, invece fu più risoluto: quando fu mosso da sentimenti di vendetta, sterminò intere popolazioni. Anche se, per la verità, fu (molto) elastico in materia religiosa. Se non c'erano conti in sospeso da regolare con gli sconfitti, egli lasciava libertà di culto.
Quando si diffusa la voce che, in Georgia, ci sarebbe stata un (presunta) conversione cristiana tra le fila dei barbari, «una processione con pane e sale, guidata da un prete, andò incontro alle schiere mongole»: furono tutti trucidati.
Marco Polo lascia di Gengis Khan un ritratto edificante e lo indica come il discendente di una stirpe a cui non erano estranei episodi di cannibalismo. Apprendiamo che i mongoli talvolta bollivano i nemici in giganteschi pentoloni, convinti, in tal modo, di impedire alle loro anime infuriate di fare ritorno. Secondo una testimonianza di Yvo di Narbona, i Mongoli «si cibavano di carne umana, come se fosse un piatto squisito e consideravano una vera e propria leccornìa i seni delle ragazze». Cotti, naturalmente.
Ermanno Antonio Uccelli |