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 Nr.20 del 19/10/2009
 
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Un vero Maestro di vita
Sul palcoscenico della storia lo spazio è limitato. Così ogni fatto, prima o dopo, è costretto a passare in secondo piano, indietreggiando nel tempo


   Henryk Goldschmit



   La simbolica pietra tombale dedicata a lui e ai suoi bambini, nel campo di Treblinka


C'è tuttavia un’eccezione che pare proprio unica: il genocidio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale. Questo dramma, al contrario, diviene, con il passare del tempo, sempre più visibile. E ingombrante. Esso sembra avere, come dire, inceppato il corso della storia. Per tale fatto, il passato sembra non passare mai.
La Shoah è tutto uno snodarsi di immagini, una più agghiacciante dell'altra. Ma tutte ugualmente terribili. Questo beninteso senza pretendere, in alcun modo, di stilare classifiche dell'orrore, non vi è dubbio che una delle più drammatiche sia quella di un vecchio e illustre pedagogista, Janus Korczak, medico e poeta. Bruno Bettelheim, psicoanalista statunitense di origine austriaca, che indirizzò le proprie ricerche nell'àmbito delle psicosi infantili, ha definito Korczak «uno dei più grandi educatori di tutti i tempi». Il suo vero nome era Henryk Goldschmit, nato a Varsavia nel 1878. Fondò e diresse orfanotrofi destinati soprattutto a ragazzi ebrei o figli di operai. Istituti che erano modernamente organizzati come società rette da princìpi di giustizia e di uguaglianza nei diritti e nei doveri.
Poi, in Polonia, nel 1939, arrivò l'occupazione nazista e Korczak dovette trasferire le istituzioni da lui dirette nel ghetto di Varsavia. I suoi bambini erano quelli dell'orfanotrofio del ghetto, cui egli aveva a poco a poco, con dedizione e pazienza, ma anche con rigore e severità, insegnato a morire. Contemporaneamente a ciò, li aveva educati ad accettare le privazioni e le sofferenze; a respingere le vaghe e infantili memorie di tempi passati, diversi e di sicuro migliori di quelli che stavano attraversando ora.
Era scrittore prolifico. Nel 1926 aveva fondato un periodico per ragazzi: "La piccola rivista", interamente composto e redatto da loro. Lui si era affermato come scrittore per l'infanzia ed era protagonista di tante e seguitissime trasmissioni radiofoniche polacche. Negli anni dal 1940 al 1942, questo grande maestro si dedicò anche ad un diario che è il tragico specchio dell'agonia, a volte quasi delirante e a volte lucidissimo, dell'attesa della fine. Pagine dalle quali emerge la vita dell'orfanotrofio dove manca, di giorno in giorno, via via sempre di più, il necessario per sopravvivere. Affiorano anche personali memorie d'infanzia del vecchio pedagogo. Ma il diario rivela altresì la sua instancabile attività nel procurare ai bambini, e al personale dell'istituto, i mezzi di sussistenza e le medicine necessari. Le annotazioni a volte sono sarcastiche. Le constatazioni dolorose. Fra scorci di tragedia, il medico ci consegna grandi insegnamenti e vere e proprie perle di saggezza: «La riservatezza degli adulti è un vero disastro. Non fate sorprese ai bambini se non ne vogliono. Dovrebbero sapere subito, essere informati in tempo, se ci saranno degli spari, se ci saranno di sicuro, come e quando. Devono infatti avere modo di prepararsi per il lungo viaggio, lontano e pericoloso». Che dire, dopo parole come queste. Non resta che il silenzio. E il desiderio di ascoltare.

Poi il ghetto di Varsavia fu evacuato. Nel luglio del 1942 era stato creato il campo di sterminio di Treblinka per raccogliervi tutti gli ebrei di Varsavia. E sterminarli. Il campo fu liquidato nel novembre del 1943. Le vittime erano gli ebrei polacchi e di altri Paesi europei vicini. Secondo le stime, furono poco meno di 900 mila le persone uccise, fra le due date, in questo piccolissimo villaggio, dal nome strano e bello, che sarebbe entrato nella storia come luogo dell'orrore e della menzogna. Sì, perché qui era stata creata una finta stazione ferroviaria con sportelli di biglietteria, orari, frecce che indicavano destinazioni ferroviarie verso altre località dell'est… Tutto era dipinto. Compreso un grosso orologio con le lancette disegnate che non si muovevano mai. Ma che si riteneva nessuno avrebbe notato.
Questo era Treblinka: una perfetta macchina dello sterminio. Che, da sola, «avrebbe potuto uccidere i sei milioni di ebrei e altri ancora», come ha scritto uno dei pochissimi sopravvissuti di questo campo di sterminio dal nome così grazioso che, per sempre, rimarrà associato all'orrore dell'Olocausto.
Il campo è segnato, per tutto il suo perimetro, da pietre alte due metri. Il monumento commemorativo eretto sul posto dai polacchi è bello. Costituito da 17 mila frammenti di granito dalle dimensioni più varie. Portati qui per circondare il grande monolito di pietra e ricordare i circa 870 mila ebrei polacchi, greci e jugoslavi che qui furono trucidati. Di tutte le città e le cittadine polacche. Oltre ad almeno 2 mila zingari.
Le pietre sono disseminate in modo apparentemente casuale. Questo cimitero simbolico del campo di sterminio ospita una sola commemorazione personale: quella di Janusz Korczak e dei suoi fanciulli. Sono essi che incarnano il martirio delle centinaia di migliaia di persone che furono massacrate qui.
Quando nella estate del 1942 le deportazioni dal ghetto di Varsavia verso Treblinka toccarono anche il suo orfanotrofio, l'illustre pedagogista ebbe diverse proposte, da parte delle autorità tedesche, di avere salva la vita. Le rifiutò tutte. E si avviò, assieme ad altri educatori dell'orfanotrofio, verso il convoglio che lo avrebbe portato alla macchina di morte di Treblinka. Con lui, i suoi circa duecento bambini. In ordinata fila per due. Sessantasette anni fa.

Ermanno Antonio Uccelli


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