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 Nr.20 del 19/10/2009
 
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Ma davvero vogliamo conoscere noi stessi?
Sì, forse è vero. Forse è proprio così. Credo che ciascuno di noi si racconti una storia sulla vita che viviamo; sulle cose che realizziamo e, più in generale, sul mondo


   Simone de Beauvoir



   Abraham Maslow


Storie positive o negative, realistiche o illusorie, allegre o tristi. In ogni caso è questa storia che finisce per influenzare i nostri sentimenti e le nostre azioni. Alla luce della realtà, dei fatti lucidamente percepiti, la nostra narrazione interiore può rivelarsi completamente fittizia. È qui, a questo punto, dove si scopre quanto la relazione con l'altro sia importante e serva proprio per abbandonare l'incessante monologo interiore che ci porta così spesso a creare autoinganni e illusioni che ci dànno apparenti sicurezze che, come castelli di sabbia, si sgretolano alla prima difficoltà che incontriamo.
A volte mi chiedo se sia poi così vero che vogliamo conoscere noi stessi. Con chiarezza e sino in fondo.

Abraham Maslow, psicologo della Università del Wisconsin, aveva stabilito una Gerarchia dei Bisogni che si sviluppava attraverso cinque livelli. Dopo i bisogni primari (quelli fisiologici) che devono essere coperti appena possibile, come la fame, la sete, il sonno, la termoregolazione corporea e la sessualità, e la cui mancata copertura porta alla malattia, al dolore e via via, sino alla morte, vi sono altri bisogni (secondari) come la sicurezza, il bisogno di appartenenza e di amore, di autostima, di auto-realizzazione ed altri ancora. Egli considerava sani gli individui che conoscevano la verità a proposito delle loro fragilità, debolezze e difetti. Una recente ricerca sembrerebbe dimostrare il contrario: le persone che hanno la capacità di percepire la realtà come essa veramente è, sono (quasi) sempre destinate alla depressione.
Potremmo dire così: la mente crea una propria visione della realtà. Essa è basata in genere su un piccolo flusso di informazioni ricevute, che i sensi provvedono a filtrare e a ridurre. La mente, naturalmente, difende a spada tratta l'immagine che ha creato. E questo rende problemico, in modo particolare, rivedere il nostro mondo con occhi più obiettivi. Revisione che sarebbe auspicabile facessimo con tranquillità e lucidità. Senza ansie e meccanismi di difesa. Anche se sappiamo, per esperienza, che non è poi così facile osservare i fatti che ci riguardano senza opinioni, convinzioni, teorie o ideologie. Soprattutto senza tentare di giustificare e di mantenere le cose esattamente così come stanno. Perché esse, perlopiù, riguardano la nostra vita passata. In altre parole, ciò che abbiamo fatto prima.
È davvero straordinario come ciascuno di noi pensi che il solo tesoro che abbiamo sia la nostra vita passata. Del tutto inconsapevoli (sembra) che la nostra vera ricchezza sia, come invece io credo, il presente. A qualsiasi età. È solo un gioco malinconico e inutile quello di abbandonarsi, alle volte, a pensare a come avrebbe potuto essere diversa la nostra vita se quella volta…, se quel giorno…, se quella persona… Una vita migliore, o peggiore, non lo sappiamo. Mentre invece sappiamo ciò che possiamo felicemente vivere ogni giorno: quella miniera d'oro che è la nostra vita quotidiana.

Simone de Beauvoir scrisse, a 54 anni, ne "La forza delle cose": «… Rivedo la siepe di noccioli che il vento cullava e le promesse di cui ardeva il mio cuore quando contemplavo ai miei piedi questa miniera d'oro; tutta una vita da vivere. Le promesse sono state mantenute. Eppure volgendo uno sguardo incredulo su quella credula adolescenza, posso rendermi conto, stupita, fino a che punto sono stata defraudata». Dal che pare proprio di capire che noi ci raccontiamo storie sulla vita, sulle cose, sul mondo, per poter tornare ad essere ciò che eravamo, il sé stessi di allora. Eccolo, il gioco malinconico e inutile. Rispetto al quale non riusciamo (o meglio, spesso ci rifiutiamo) di fare un compromesso. Parola che gode di pessima reputazione. Che invece, a ben riflettere, è sinonimo di vita. Come a dire: dove c'è vita ci sono (o dovrebbero esserci) dei compromessi. Che sono, non vi è dubbio, soluzioni incomplete e (spesso) discutibili che denunciano (però) la rinuncia, da parte di ciascun contraente un determinato accordo, a qualcosa in favore dell'altra. Sembrerebbe che il contrario di compromesso fosse integrità. O devozione. Oppure idealismo. O, ancora, determinazione. Ma a me non pare che sia così. Il contrario di compromesso lo sento, lo leggo, lo vivo come fanatismo. E il fanatismo, superfluo dirlo, non è che morte. Perché il fanatico non si mette mai nei panni degli altri. Che è, secondo me, la massima espressione di intelligenza. Poiché chi si mette nei panni degli altri relativizza la propria posizione. E, così facendo, è portato, in modo inevitabile, a sorridere di sé e dei suoi pensieri. Questo modo di essere, come ben si capisce, è del tutto opposto a quello del fanatico. Costui, come dice lo scrittore israeliano Amos Oz, è «un punto esclamativo ambulante». Come tale, non è mai sfiorato dal dubbio. E, forte delle sue certezze, vuole redimere il prossimo costringendolo ad assumere la sua propria posizione. Naturalmente è totalmente ignaro di che cosa sia l'ironia. È una persona tutta di un pezzo. Della quale sarebbe estremamente saggio diffidare. Secondo me, naturalmente. Perché gli uomini tutti di un pezzo non hanno capito che la vita, l'esistenza, è, per sua natura, ambivalente. Incerta. Contraddittoria. Imperfetta. Ma, come dice ancora Oz, è sempre meglio «l'imperfezione della vita» che la «perfezione di una morte gloriosa».

Ermanno Antonio Uccelli


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