La domenica mattina di fine ottobre, non era molto fredda. Partiti da casa sotto il diluvio universale, io ed il mio cane ci guardammo negli occhi come a chiederci se ne sarebbe valsa la pena. L’acqua che cadeva dal cielo in realtà era davvero tanta ma, visto che eravamo già svegli da un bel po’e che per il sottoscritto l’unico giorno di festa era quello e che avevo bisogno di scaricare le tossine delle rogne settimanali;…. se è vero che due più due fanno quattro, sarei partito anche se avesse piovuto…. Non so cosa. E feci bene ! I fari antinebbia del fuoristrada disegnavano in quella nuvolona due strisce biancastre che si fermavano, per giochi strani della fisica, a circa venticinque, trenta metri dal muso della vettura. I vari buchi e i canaletti scavati dalla pioggia, in quella stradina bianca, alla luce dei fari parevano vere voragini. La pioggia battente, contribuiva a rendere l’atmosfera alla pari di un buon film dell’orrore, dove tuoni fulmini e saette la fanno da padrone nelle notti cupe che incombono sul castello. La radio accesa, ogni due parole di canzone, emetteva un gracchiare sinistro; meglio spegnere. Peccato, perché era in ogni modo una compagnia. Un’esplosione molto forte mi fece sobbalzare sul sedile, ed il cane emise un corto ululato d’evidente disappunto. < Questo è picchiato vicino eh? Niente paura piccolo siamo al sicuro > Sapevo di mentire spudoratamente, altro che sicuro; se cade un albero ci ammacca entrambi.
-“Bisogna essere malati per cercarsi il pericolo in questo modo”-, pensai, mentre la pioggia battente si tramutava in una spruzzatina lieve che a malapena bagnava il cristallo. La macchina in ogni modo arrancava lenta ma sicura sulla strada che portava alla cima del monte; una strada sterrata larga e comoda da fare, ma che si rivelava abbastanza insidiosa con quei rigagnoli minacciosi che scorrevano sotto le ruote, anche perché dal lato sinistro vari segnali stradali avvisavano la completa mancanza di protezione a valle. I fari di profondità che prima si fermavano a trenta metri dal muso della vettura improvvisamente liberi spaziarono molto più lontano,allungando a dismisura le ombre degli alberi sulla strada. Avevamo forato la nube ed un cielo terso e pieno di stelle ci apparve dinnanzi. Che spettacolo! In anni d’alzatacce e di viaggi sul monte in piena notte, per cercare la Regina, non mi ricordavo di aver mai visto nulla di simile, una sosta era doverosa per assaporarne lo spettacolo ed anche i profumi di buono che la Terra mi regalava. Stupendo, sopra la nuvolona nera eravamo io, il cane, la macchina e la cima della mia collina; sopra di noi il firmamento. Null’altro. Mi sarei mangiato le mani per non avere con me la macchina fotografica, sempre ammesso che sarei stato capace ad usarla, perchè il sole non ancora alzato spingeva debolissimi raggi dal basso dell’orizzonte e la luce era ancora troppo fioca; per cui mi devo accontentare di cercare di descrivere quello che vidi. Cento metri, forse nemmeno, più in basso, qualche lampo di luce seguito da un brontolio lontano rischiarava a giorno la valle per una frazione di secondo. Non riuscivo nemmeno ad orizzontarmi per capire dove potesse essere il Paese, era troppo bello quello che stavo ammirando; sicuramente non credo mi capiterà mai più. Sembrava di veleggiare sopra ad un mare di cotone illuminato qua e là da lampadine accecanti nascoste nella sua fibra. Persino il mio cane guardava silenzioso giù in basso; forse si stava chiedendo su quale pianeta eravamo sbarcati. L’aria profumava di pulito, di muschio bagnato, di buono ed una leggera brezza saliva fresca dal basso, da quella nube che stava ora colorandosi di un rosa scuro sulla superficie. Il Sole cominciava a mostrarsi con una leggera strisciolina giallo carico, salendo timidamente su dai monti lontani, colorando come un pittore tutto il cielo sopra di me di un viola mai visto, mentre le stelle ci avevano già salutato, eccetto una o due, le solite ritardatarie. Meraviglioso. Avrei voluto avere compagnia umana per dividere tutto questo, ma mi bastò l’espressione del mio amico a quattro zampe per sentirmi appagato; forse aveva capito quello che provavo. A quel punto le parole sicuramente avrebbero rovinato la poesia del momento. Passata un’ora il sole era del tutto visibile e la nuvolona nera della notte appena passata, si era trasformata in tanti batuffoli bianchi, spinti da una tramontana debole e volavano ormai di valle in valle lasciando che il paese sottostante godesse del calore dell’astro. Certo che fare il poeta con un fucile in mano, ed un cane da caccia al fianco, parrebbe essere perlomeno fuori luogo, per qualcuno, ma ditemi: chi di voi, cacciatori, non si sono scoperti a riflettere sul creato davanti a spettacoli di cotanta bellezza; salvo poi diventare predatori per l’ancestrale comando di vincere sulle prede più furbe, scaltre e veloci.
Il cane ora stava cercando, tartufo all’aria qualche debole emanazione che l’avrebbe portato sul selvatico da catturare, io cercavo di non scivolare camminando sul tappeto di foglie di castano fradice di pioggia. Immerso in un bosco che pareva fatato. La mattinata passò, tra una scarpinata e l’altra cercando quel folletto alato che, sicuramente, aveva già indirizzato, nella notte appena trascorsa, il suo lungo becco verso nuovi lidi. La mattinata passò, tra uno zirlo e il chioccolare di qualche merlo, nero come la pece; di quelli furbi, quelli che li senti ma non si fanno mai vedere. La strada ora, con la luce era molto più agevole e semplice da percorrere, sulla via del ritorno. Tolsi le cartucce dalla doppietta, sempre quelle da tre uscite oramai, ma che importa, l’importante è essere stato lì: presente ed attonito spettatore di uno spettacolo sublime, che nessuno, seppur bravo, regista, o famoso pittore, o affermato musicista potrà mai riprodurre. Un altro tuono lontanissimo si fece sentire quasi con vergogna, vidi in lontananza un altro monte ancora per metà coperto dalle nuvole. Chissà a chi toccherà godersi lo spettacolo domani mattina, speriamo che lo apprezzi come ho fatto io. È un sincero augurio.
Renzo Stella
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