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Mio figlio ha un tatuaggio disegnato da lui, eseguito da altri. Un occhio da cui sgorga una lacrima. Dice che sono 15 anni che non riesce a piangere. Forse dovrei cominciare a picchiarlo, o forse dovrei picchiare me stesso per non averlo aiutato a coltivare i suoi sentimenti. È probabile che la mancanza di severità e di punizioni corporali abbiano indotto alcuni ad autopunirsi, o forse è solo la moda del momento, lo spirito di emulazione mediato dai personaggi televisivi o dai calciatori. La maggior parte delle persone tatuate conoscono poco la simbologia del disegno che si portano addosso, facendo spesso esibizione di ignoranza. Guardano un catalogo, scelgono il soggetto, pagano, è tutto finisce lì. Il tatuaggio solitamente non racconta niente di loro, se non il desiderio di essere come gli altri. Non ho nessun rimprovero da muovere nei loro confronti, ma io preferisco le mie cicatrici. Ogni cicatrice mi ricorda una storia, un luogo, un evento. Avendone molte (la maggior parte non visibili) posso ripercorrere a ritroso la mia vita, dandole un senso quantomeno cronologico. Pollice sinistro, stavo sfrondando un ramo con una roncola troppo affilata, nonostante i consigli di mio padre, la stessa manca il bersaglio. Risultato, la prima falange del pollice sinistro pendente, attaccata solo da un brandello di pelle. Sangue come se piovesse, due lunghe garze intrise di fluido vitale, corsa dal medico, il quale fascia stretto l’opponibile dicendo: - Tanto sei di carne buona, vedrai che si riattacca-. Avevo due anni, il pollice guarì. Sei mesi dopo caddi a faccia in giù rompendomi la pelle sotto il mento. Passarono circa sei anni di relativa tranquillità. Un giorno, poco dopo il mio ottavo compleanno, mio fratello di soli due anni, mi pianta un temperino (coltello) nella schiena, sotto la scapola sinistra. Risultato, una piccola fontana che zampillava sangue fino a due metri di distanza. Mi carica un muratore che lavorava nei dintorni, tre punti dal solito medico, e via così.
L’inverno che seguì, evasi da un soggiorno obbligato calandomi dal secondo piano lungo una grondaia, recandomi in un campo adibito a vigneto. Il salto di una fossa scavata per sostituire una vecchia vite, incontro un filo troppo teso mi aprì una ferita che dalla narice destra arrivava appena sopra il margine estremo, sempre destro della bocca. Venti punti ravvicinati per ricucire un taglio che zigzagava come un fulmine. Dopo appena un mese, per impedire che il lancio di una pinza rompesse la vetrina dell’unico buffet di casa, lancio effettuato da mio fratello, mi costrinse ad interporre la mia testa sulla traiettoria. Risultato, un buco appena sopra l’orecchio sinistro. Un fazzoletto imbevuto nella grappa a tamponare, e via così. Dopo una settimana, la scena si ripete. Il corpo contundente una pistola di zama. Il lanciatore, lo stesso. Il bersaglio, lo specchio dell’armadio a tre ante, l’ammortizzatore? La mia testa. Una manciata di cenere, e via così. Nel 1959 avevo già più cicatrici di un guerriero pellerossa, un vicino, invidiato possessore di un televisore acquistato a rate, gratificò la mia famiglia con un invito alla visione di non ricordo che programma. Con la scusa di un bisogno impellente, abbandono la stanza per andare ad ingozzarmi di susine. Per la fretta, e nel buio, scivolo dalla pianta, ed un gancio arrugginito mi lacera la maglietta nuova, e tre centimetri di pelle. Corro a casa, (non c’erano serrature) prendo un pezzo di carta usata per incartare lo zucchero, la imbevo nell’aceto, me la metto sulla ferita, e via così. Sempre in quell’anno, mentre stavo facendo visita ai miei nonni paterni, passo, forse troppo velocemente, davanti alla cuccia del loro cane, il quale, offeso dalla mia indifferenza, non trova di meglio per protestare, che azzannarmi il polpaccio destro, lasciandomi il segno di un dente, che oggi a 58 anni, mostra ancora una cicatrice del diametro di otto millimetri. Il Mella, negli anni sessanta, era meno inquinato ma più pericoloso di oggi. Sul fondo del fiume riposavano, scatolette di latta taglienti come rasoi, fondi di bottiglia e ritagli di ferro. Le mie piante dei piedi, le mie ginocchia, sono costellate da una decina di cicatrici testimoni di quegli spiacevoli incontri. Cenere, fango, aceto, grappa, mi curavo così, mai avuto infezioni, mai fatto un’iniezione di antitetanica. Mi creavo gli anticorpi (almeno così credevo) bevendo l’acqua delle acquasantiere, dove il 70 per cento della popolazione del paese immergeva le mani per farsi il segno della croce. Durante l’estate del mio undicesimo compleanno, dopo aver lavorato come “piccolo” per un elettricista, acquistai una carabina ad aria compressa, piuttosto malridotta. Con più buona volontà che mestiere, sostituisco la guarnizione di cuoio dello stantuffo, con un ritaglio di pelle ricavato da una scarpa scartata da mia madre, metto il dito all’estremità della
canna per verificare quanto forte esce l’aria, dimenticandomi di averla già caricata. Il pallino di piombo, di circa 4,5 millimetri di diametro si conficca nella prima falange dell’indice destro, fino quasi all’osso. Spaventato all’idea, che il dottore mi debba aprire il dito per estrarre il proiettile, me lo tolgo con i denti. A tredici anni, durante una concitata partita a pallone con mio fratello, lo stesso, si arrabbia per una mia presunta irregolarità, e mi lancia un frammento di mattonella colpendomi alla nuca. Fortunatamente per lui, fugge come una lepre, mentre io tampono con la maglietta la ferita. Dottore diverso, tre graffette di acciaio inox, senza anestesia. A diciannove anni, in attesa di partire per il servizio militare, mi impiego come manovale in una ditta di costruzioni edili. Dopo aver scaricato un intero bilico di sacchi di cemento da 50 chilogrammi, ubriaco di fatica, non mi avverto di un pezzo di legno irto di chiodi. La punta di uno di questi che spunta dal collo del piede mi fa passare la sbronza. Potrei continuare per altre decine di pagine, ma mi fermo qui, non vorrei tediarvi ulteriormente, anche perché, la somma delle ferite subite dal corpo sono niente in confronto alla ferite dell’anima. Sono queste ultime che mi hanno portato a diventare un poeta. Volevo raccontare le immense sofferenze dell’Umanità, sofferenze che quotidianamente mi consumano. Nell’attesa di illustrarvi il resto delle mie non poche cicatrici, vi lascio con una poesia che ho riletto più volte nei momenti di sconforto, e che ha per titolo: “…e non nascere”
… E NON NASCERE
Metempsicosi
uomo-uccello,
l’anima impazzisce,
cercando fenditure
nella volta cranica.
Decomposizione
in fiasche di carne.
Poter correre a ritroso
sullo specchio del Tempo,
atomizzarsi,
risalire lungo raggi di luce,
tornare nel grembo,
ricomporsi,
e non nascere. |