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 Nr.8 del 02/04/2007
 
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Avamposto 46



   Nazim Hikmet


NAZIM HIKMET È MIO FRATELLO


Sì, sono fratello di un turco. Fratello di versi. Fratello di idee.
Ho avuto buoni professori di italiano e antologie coraggiose. Lì ho qui davanti agli occhi.
Professori e poeti, che hanno fatto di me una persona diversa e migliore.
Prima con Radio Brescia Popolare, ed ora, attraverso le pagine del VALTROMPIASET, evocherò i fantasmi ed i versi di coloro che pensavano che in ogni uomo ci fossero più cose da rispettare che cose da odiare o biasimare.

Voglio cominciare da Nazim Hikmet, approfittando del fatto che la rivista “Poesia”, edita da Crocetti editore, ha dedicato al poeta la copertina ed ha pubblicato alcune sue poesie inedite… e meravigliose.
“Penso - scriveva Nazim Hikmet - che la poesia debba essere innanzitutto utile … utile a tutta l’umanità, utile ad una classe, ad un popolo. Utile ad una causa, utile all’orecchio. Voglio essere capito dal maggior numero di persone, ai più vari livelli di cultura, nei più diversi stati d’animo.
Credo che la poesia, che la forma siano perfette quando danno la possibilità di creare un ponte tra me poeta e chi mi legge e mi ascolta”.
Nel 1922 quando il giovanissimo Hikmet giunse in Anatolia, per la prima volta vide in faccia i contadini, vide le loro capanne di fango e la loro fame millenaria; imparò il loro linguaggio, scoprì i loro canti e da allora legò la sua sorte alla loro.
In quegli anni Hikmet si reca ad Ankara, e diventa un agitatore. Riunisce gli operai e i manovali, legge versi rivoluzionari nei caffè e nei cantieri. La polizia comincia a tenerlo d’occhio.
Sempre nel 1922 Hikmet fugge clandestinamente in Russia.
Mosca in quegli anni era il crogiolo della cultura rivoluzionaria. Majakovskij aveva già scritto “Il mistero buffo”, “I 150000”, “La nuvola in calzoni”. Chlebnikov ed Esenin producevano le loro più belle poesie. Chagall affrescava gli uffici pubblici ed il teatro di stato. Eisenstein preparava il suo primo film “Sciopero”.
Nel 1924, dopo aver portato anche lui sulla sua spalla, con indicibile commozione, il feretro di Lenin, arricchito di grandi esperienze, torna nel suo paese per lottare con il suo popolo.
“Un tempo (scrive Hikmet in quell’epoca) negavo tutto ciò che era al di fuori dei miei interessi, dei miei ideali. Oggi non nego, oggi combatto; ma pur combattendo, cerco di capire gli altri, di utilizzare ciò che vi può essere di utile in tutto e in tutti.
Nel 1938, accusato di istigazione alla rivolta, Hikmet viene arrestato, e condannato dai tribunali militari turchi a 32 anni di carcere. Tradotto nella prigione di Bursa, vi rimarrà per 13 lunghi anni.
A Bursa, nonostante le condizioni durissime e la costante minaccia di morte continua a produrre poesie. Il carcere è pesante, a volte gli negano perfino un mozzicone di matita o un pezzo di carta, ma Hikmet non si arrende, elabora i versi mentalmente e li fa imparare a memoria a chi lo viene a visitare, accentuando così la sua ricerca di semplicità e di grande comunicatività.
La più grande opera che scrisse e a tratti costruì oralmente in quegli anni, è un poema di 70000 versi, divisi in otto libri, intitolato: Panorami Umani.
La madre Aiscé Jeliné vecchia e malata, va in carcere a trovarlo, e impara a memoria lunghi brani di quella monumentale opera, che poi scrive e diffonde.
Nel luglio del 1950, dopo tredici anni di prigionia il governo turco lo rilascia in libertà vigilata e provvisoria. Passa ad Istanbul alcuni mesi sempre sorvegliato dalla polizia che continuamente cerca un pretesto per riarrestarlo. Arriva il 1951 e Hikmet decide di espatriare clandestinamente.
Si reca a Mosca, sperando di trovarvi come trent’anni prima la città dei suoi sogni più belli.
Mosca però era molto cambiata e così l’Unione Sovietica. Dei suoi vecchi amici, alcuni erano morti.
Majakovskij suicida a soli 37 anni, Babel in Siberia, altri come Chagall vivevano a Parigi.
Hikmet con la sincerità ed il coraggio che lo caratterizzavano, reagisce duramente attaccando la classe di burocrati formatasi nella nuova Unione Sovietica, e lo fa attraverso un pungente dramma satirico titolato; “Ma, è mai esistito Ivan Ivanovic?”.
Tornato in Turchia, la sua vita fu quella di un rivoluzionario in un paese dominato dalla reazione: attività clandestina, miseria e pericoli. Diciassette anni complessivi di carcere, condanne a morte sospese per anni sul suo capo. Nonostante ciò, la sua fermezza poetica e umana non ebbe mai il minimo cedimento, e fu, con entusiasmo e semplicità, eroica e coerente.
Hikmet, morì a Mosca il 3 giugno del 1963 per un infarto fulminante; aveva 61 anni.
Le traduzioni delle sue opere ebbero larga diffusione oltre che nei paesi socialisti, in America Latina ed in Africa, ma non furono mai tradotte in inglese, e negli Stati Uniti egli è quasi totalmente sconosciuto. Potrei continuare a parlarvi di lui, della sua avventura cubana, magistralmente celebrata nella rarissima antologia “Una Conga con Fidel”, ma preferisco come è giusto, lasciare che siano le sue poesie a raccontare chi era Nazim Hikmet.




GIRANO, GIRANO I REATTORI ATOMICI…


Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, i camion dell’immondezza
raccattano morti sui marciapiedi,
cadaveri di affamati,
cadaveri di disoccupati.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, famiglie di braccianti,
uomo, donna, asino, attaccati all’aratro
arano la terra, la terra, grande come la mia mano.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, una bambina muore,
una bambina giapponese a Hiroshima,
dodici anni e numerata,
né meningite né difterite.
Muore nel ‘58
una piccola giapponese a Hiroshima
per essere nata nel ’45.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, un uomo grassoccio
esce dal letto, si veste distratto:
“Chi bisogna denunciare oggi, a chi?
Come compiacere il mio capo?”
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, l’autista negro
è appeso all’albero sul lato della strada;
lo innaffiano, lo bruciano,
poi uno va a bere il suo caffè,
l’altro a farsi radere dal barbiere,
un altro ad aprire il suo negozio di buon’ora,
un altro ancora bacia in faccia la figlia.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, al levarsi del sole
e ancora al levarsi del sole, la prigioniera
legata con le cinghie sul tavolo, sdraiata sul dorso,
i seni coperti di sangue,
è interrogata in una cantina;
quelli che la interrogano fumano sigarette,
uno, una ventina d’anni, l’altro una sessantina,
le camicie sono sudate, le maniche rimboccate,
e i sacchi di sabbia, e gli elettrodi.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e quando il sole si leva sui petali di rosa
e sui prati, piloti silenziosi
caricano bombe H sugli aerei a reazione;
e al levarsi del sole, al levarsi del sole
studenti e operai vengono falciati
dalle mitragliatrici
e anche le acacie dei viali
e le finestre, e i fiori sul balcone;
e al levarsi del sole l’uomo di Stato
ritorna al suo palazzo dopo il ricevimento,
e al levarsi del sole gli uccelli cantano,
e al levarsi del sole, al levarsi del sole
una giovane madre allatta un bambino.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante.
E al levarsi del sole, avevo passato una notte,
tutta una lunga notte senza sonno
e nel dolore;
ho pensato alla mia nostalgia, alla morte,
ho pensato a te, al mio paese,
a te, al mio paese, e al nostro universo.
Girano, girano i reattori atomici,
le lune artificiali passano a sol levante,
e al levarsi del sole, non c’è la speranza?
La speranza, la speranza, la speranza,
la speranza è nell’uomo.


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