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 Nr.26 del 21/12/2009
 
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Un crimine nefando. E mostruoso. A Bhopal
Su il giornale della Valtrompia del 2 dicembre 2002, cioè sette anni fa, scrivevo: «Una infamia che invoca giustizia. Chi l'ha vista assicura che vi siano le immagini e i segni della follia umana. Dell'avidità dei profitti. Del non rispetto per la natura. Del disprezzo per l'umanità. E, ancora, del palese manifestarsi di quanto la giustizia sia imperfetta».

Parlavo allora di Bhopal. Del suo inferno. Del grido di dolore che si era levato contro questa infamante e sconvolgente ingiustizia che aveva subìto la capitale del più grande e popoloso stato dell'Unione indiana, il Madhya Pradesh.
I fatti sono noti. Una multinazionale americana, la Union Carbide, aveva impiantato a Bhopal, una azienda di alta tecnologia per la produzione di un pesticida con un prezzo basso e una tossicità alta. Con tale impianto, è iniziato l'incubo. Perché, in parallelo con le sostanze altamente pericolose, le norme di sicurezza erano pressoché nulle. E ciò che viaggiava alla grande erano l'incuria e la scarsa manutenzione. Che è stata addirittura fermata per tagliare i costi operativi.
La notte a cavaliere fra il 2 e il 3 dicembre del 1984, la fuga di un alto quantitativo di gas tossico dalla fabbrica, provocò la subitanea morte di alcune migliaia di persone. Nei tre giorni successivi all'evento, le vittime furono ottomila. Che arrivarono, in breve tempo, a 25 mila. Anche se si deve dire con chiarezza che il vero numero delle vittime non lo si saprà mai: non c'era una anagrafe. Comunque, fu una vera e propria strage. Per dire: sei volte più di quella delle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001. Lo dico non per fare inutili e sciocchi paragoni; ma per sottolineare l'entità e la spaventosa gravità della tragedia che ha colpito questo vasto territorio ricco di fiumi, con terreni molto fertili perché sono terre nere di origine vulcanica e sfruttato, in modo vasto e completo, per coltivazioni del riso, del frumento, del cotone e ricco di grandi foreste, soprattutto tek, ma anche con sviluppati allevamenti di bovini, ovini e caprini. Grandi e ricchi sono anche i giacimenti minerari di cui questo stato è tra i maggiori produttori indiani e che fornisce gran parte della produzione diamantifera nazionale.


Un quarto di secolo. Sono già trascorsi cinque lustri da quella terribile notte del 1984, quando dalla fabbrica americana uscirono 42 tonnellate di gas isocianato di metile.

Gli isocianati sono sali dell'acido isocianico, un composto formato da ossigeno, azoto, carbonio e idrogeno, impegnati nella preparazione dei poliuretani, resine sintetiche usate come materie plastiche rigide o espanse per l'isolamento termico e acustico. Gli acidi cianici sono liquidi incolori velenosissimi che si polimerizzano (si mescolano, si uniscono) facilmente e si producono per ossidazione dell'acido cianidrico, detto anche acido prussico, un liquido incolore dal pronunciato odore di mandorle, molto tossico per gli organismi animali. È un prodotto assai usato come topicida nella deratizzazione di magazzini e navi, come anticrittogamico e antiparassitario di piante da frutto.

La fuga di gas tossico proveniente dall'impianto chimico della fabbrica americana, oltre a provocare in breve lasso di tempo la morte di migliaia di persone, causò lesioni di varia gravità alla maggior parte della popolazione. Danni spaventosi che continuano tuttora per l'inquinamento della zona e colpiscono adulti, bambini e nascituri.
Insomma, fra l'indifferenza del mondo intero (o quasi) si è consumata la più grande catastrofe industriale della storia. Un delittuoso disastro che è stato ribattezzato "l'Hiroscima della chimica". E, come in quella occasione, una nuvola di morte si abbatté sulle case dei dintorni. Il vento spirava proprio in direzione delle case dei basti, le baraccopoli sovraffollate stese attorno al perimetro della zona industriale che gravita alla periferia di questa capitale di oltre un milione di abitanti. L'edema polmonare che colpì gli sventurati abitanti fu pressoché immediato e a lui va imputato la causa della maggior parte dei subitanei decessi. Oltre 500 mila (sì, cinquecentomila!) le persone esposte alla nube tossica. Incalcolabili i danni che hanno colpito le vittime dell'inquinamento. Innumeri i processi mai terminati. Ridicoli e vergognosi i pochissimi risarcimenti pagati. E rimane un sito mai bonificato che continua a mietere vittime.
Quello ch'è certo è che un terzo di quel mezzo milione di infelici vanno in pellegrinaggio. Ogni giorno. Attraverso gli ospedali che, fatiscenti come sono, rischiano di crollare loro addosso. Quelli nuovi, costruiti dopo l'evento, non servono pressoché a nulla, perché non c'è il personale che sappia come curare le malattie causate da una miscela di gas sconosciuti, perché la Union Cardibe non ha mai voluto fornire notizia alcuna sulla natura del gas. Un viaggio attuato nel tentativo di curare le patologie, le più varie, frutto prodotto e portato di quel luttuoso e drammatico evento.

Oggi pertanto, a distanza di un quarto di secolo, la situazione è ancora più drammatica e tragica che a quel tempo, perché è peggiorata: i bambini che nascono sono segnati in modo irrimediabile; le condizioni di vita del tutto impossibili lì, accanto a quella fabbrica che ha distribuito morte a piene mani e che tuttavia è mezzo sepolta dai rifiuti tossici. Racchiusi in sacchi. Abbandonati. Che i monsoni trascinano con sé, per poi liberarli nella terra, nell'aria, nell'acqua…
Un problema, quest'ultimo, che lascia addirittura sgomenti. Perché, nonostante le falde acquifere siano del tutto compromesse, gli indiani non possono fare altro che attingervi sistematicamente: non c'è altro. Sì, qualche autobotte ogni giorno, ma non basta assolutamente, per cui…
Un'acqua i cui valori di inquinamento sono 500 volte superiori a quanto previsto dalla OMS (l'Organizzazione Mondiale della Sanità). Un'acqua che quando lo scrittore Dominique Lapierre ha provato ad assaggiarla «bocca, gola e lingua sono andate a fuoco. Sùbito. Braccia e gambe, invece, erano colpite da un immediato sfogo cutaneo». Così l'autore di Mezzanotte e cinque a Bhopal, 2001, sul peggiore disastro chimico della storia.
È a Bhopal, città carica e ricca di cultura che la poesia è più importante delle partite di calcio. Io credo sia un fatto unico al mondo. Famoso l'episodio riportato dai media locali del taxista che ha rapito il suo poeta preferito. Sotto la minaccia di una pistola lo ha tenuto prigioniero per sette ore. E costretto a declamare, in tale tempo e ininterrottamente, tutta la sua produzione poetica. Cosicché si può davvero dire che la poesia – a Bhopal – sia non solo una meraviglia, ma insieme un sacrificio. Questa forma di comunicazione, che dura da migliaia di anni, è passata indenne tra guerre di istruzione e perdite di civiltà. Non c'è dubbio, quindi, che possieda tuttora la carica potenziale di comunicazione che sempre ha avuto. E poco importa se in questi anni, durante i quali si sono mescolate forme di comunicazioni varie – tecnologiche e mediatiche –, la poesia sembra un poco dispersa. A ben guardare, invece, essa si muove sempre come un pesce rosso dentro l'acqua del mondo. Per tale motivo essa va tutelata, difesa, conservata, perseguita e amata. Perché è una sorpresa continua, in quanto sempre si rinnova.

Nei superaffollati basti sorti in prossimità della fabbrica, gli spazi lasciati liberi dai morti sono stati subito occupati dai molti in cerca di un tetto. Non è che essi non sapessero ciò cui andavano incontro: sapevano bene l'inquinamento cui lasciavano in pegno la loro vita, ma come fare?, non c'era altra prospettiva. Del resto, Nietzsche lo aveva già detto che «La vita si vive sempre a spese di altra vita». Forse è per questo che, secondo me, la vita è come una partita di ping-pong: devi fare in modo che la pallina resti sempre sul tavolo. Credo sia una bella immagine. Oltreché del tutto vera.

L'orrore, insomma. Che non è solo fisico. Frequentissimi i disturbi neurologici e psichiatrici. Donne rese sterili. Uomini in perenne stanchezza psico-fisica che non troveranno mai più lavoro: fantasmi, relitti in fuga da sé stessi. Sono ovunque. Persone che aspettano con ansia l'arrivo di ogni nuovo giorno. Di ogni nuova settimana. Di ogni nuovo anno. Con una speranza e un augurio: riuscire un giorno a cancellare il ricordo di quella terribile notte dal calendario della loro memoria: la notte del 2-3 dicembre 1984. Nella quale molte migliaia di persone si videro rubare la vita. In un amen.

Ermanno Antonio Uccelli


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