“Mary only one star”, “Maria solo una stella”, che qualcuno maglinamente potrebbe paragonare ad una squallida pensione, od ad un albergo di infimo ordine, con l’ignoranza ci sta provando, dimostrando scarsa competenza financo al confronto della prima donna (si fa per dire) milanese, che l’ha preceduta come Ministro della Pubblica Istruzione. Da cittadino consapevole, conosco l’importanza della cultura e sono seriamente preoccupato per la deriva verso cui sta scivolando la Scuola, e ciò mi spinge ad alcune “insane” considerazioni che cercherò di condividere. Vi faccio un esempio. Poniamo che un’atleta italiana (la Scuola), venga chiamata a partecipare ad una maratona internazionale (ricerca, progettazione, nanotecnologie, comunicazioni, energie alternative, eccetera) e che il responsabile tecnico (il ministro del tesoro), imponga all’allenatore (Mary only one star) un drastico intervento sul fisico della stessa per migliorarne le prestazioni (?), e che il consiglio, anzi l’ordine del responsabile tecnico, sia di amputarle la gamba sinistra appena sotto il ginocchio, perché soffrendo come e più di una bestia, trovi la forza e la rabbia di tagliare tra le prime il traguardo. Probabilmente la nostra atleta giungerà alla meta sorretta dalla pietà degli spettatori, (come Dorando Pietri) appena dopo la penultima concorrente, quella del Botswana, stremata dalla fame più che dalla competizione. Oppure, vergognandosi a morte, umiliata dall’essere sconfitta perfino da una persona di razza inferiore, la stessa si suicidi in un atto di autocombustione emettendo scie tricolori. La scuola di cui scrive Henry Sleaser nel racconto che segue, è di là da venire, ma se l’esempio sopra descritto ha un qualche fondamento, potrebbe essere il prologo di un evento ineluttabile. Il racconto ha per titolo: “Giorno d’esami”
GIORNO D’ESAMI
I Jordan non parlarono mai dell’esame, o almeno non lo fecero fino a quando loro figlio Dikie, non ebbe dodici anni. Fu proprio il giorno del suo compleanno che la signora Jordan accennò per la prima volta all’argomento in sua presenza, e il tono ansioso delle sua parole provocò una risposta secca del marito. – Non ci pensare ora – disse bruscamente – se la caverà benissimo. Stavano facendo colazione, e il ragazzo alzò la testa dal piatto incuriosito. Era un ragazzetto dallo sguardo sveglio, con lisci capelli biondi e modi vivaci e un po’ nervosi. Non capiva il motivo dell’improvvisa tensione che si era creata nella stanza, ma sapeva che era il giorno del suo compleanno e desiderava che regnasse l’armonia. Da qualche parte nel piccolo appartamento erano nascosti dei pacchetti infiocchettati che aspettavano di essere aperti, e nella minuscola cucina retrattile qualcosa di morbido e dolce stava cocendo nel forno automatico. Lui voleva che quel giorno fosse felice, e il velo umido che aveva appannato gli occhi di sua madre, l’espressione torva sul volto di suo padre, guastavano lo stato d’animo di palpitante attesa con cui aveva salutato quel mattino. – Quale esame? – chiese. La madre guardò l’orologio da tavolo. – è solo una specie di test di intelligenza che il governo fa fare a tutti i bambini all’età di dodici anni. Tu dovrai sostenerlo la prossima settimana. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. – Vuoi dire un test come quelli di scuola?- Qualcosa del genere – disse il padre alzandosi di scatto. – Vai a leggerti un giornalino Dikie. Il ragazzo si alzò e si diresse svogliatamente verso l’angolo del soggiorno che era sempre stato il suo angolo, fin dall’infanzia. Sfiorò con le dita il giornale a fumetti in cima alla pila, ma i riquadri vivacemente colorati non sembrarono ridestare il suo interesse. Si avvicinò lentamente alla finestra, guardando malinconicamente il velo di vapore che appannava i vetri. – Perché deve piovere oggi? - si disse – perché non può piovere domani? Il padre, ora sprofondato in poltrona con il giornale governativo tra le mani, spiegazzò rumorosamente i fogli, irritato. - Perché piove, ecco perché. La pioggia fa crescere l’erba. – Perché papà? – Perché sì, che domande. Dikie corrugò la fronte. – Ma che cosa la rende verde, poi? L’erba voglio dire. – Nessuno lo sa – tagliò corto il padre, pentendosi immediatamente della sua asprezza. Poi, a poco a poco, quel giorno tornò il giorno del suo compleanno. La madre sorrideva radiosa quando entrò con i pacchetti gaiamente colorati, e persino il padre rimediò un sorriso, e gli scompigliò i capelli. Dikie baciò la mamma e strinse gravemente la mano al padre. Venne servita la torta di compleanno, e la festa finì. Un’ora dop, seduta accanto alla finestra, guardava il sole che si faceva strada tra le nuvole. – Papà – chiese – quanto è lontano il sole? – diecimila chilometri – rispose l’uomo. (in realtà la distanza media è di 149.509.000 nda) Dikie sedeva a tavola per la colazione e vide di nuovo gli occhi della madre farsi lucidi, ma non collegò quelle lacrime all’esame, finchè il padre non tirò fuori bruscamente l’argomento.
Beh, Dikie – annunciò l’uomo con un’espressione più torva che mai – tu hai un appuntamento per oggi. – Capisco papà. Spero … - Non c’è niente da preoccuparsi adesso. Migliaia di bambini fanno quel test ogni giorno. Il Governo vuole solo sapere quanto sei in gamba Dikie. Si tratta solo di questo. – Ho preso sempre buoni voti a scuola – disse il ragazzo, esitante. – Questa volta è diverso: Si tratta di … di un test di tipo speciale. Ti danno quella roba da bere, e poi ti fanno entrare in una stanza dove c’è una specie di macchina … - Quale roba da bere? – chiese Dikie. – Oh, niente, sa di menta. È solo per essere certi che uno risponda sinceramente alle domande. Non che il Governo pensi che tu non diresti la verità, ma quella roba li rende proprio sicuri. La faccia di Dikie manifestava tutto il suo sconcerto, e un’ombra di paura. Guardò la madre, e lei si costrinse ad un vago sorriso. – Andrà tutto bene, vedrai – disse al figlio. – Certo che andrà tutto bene – ribadì il padre. – Tu sei sempre stato un bravo bambino Dikie, e te la caverai benissimo. Poi torneremo a casa e faremo una festa. D’accordo? – Sissignore – disse Dikie. Arrivarono al palazzo governativo dell’Istruzione Popolare quindici minuti prima dell’ora fissata. Attraversarono il pavimento marmoreo di un’enorme anticamera circondata da colonne, passarono sotto un’arcata, ed entrarono in un ascensore automatico che li portò al quarto piano. Lì trovarono un giovanotto, vestito di una tunica anonima, senza contrassegni, seduto dietro una levigata scrivania di fronte alla stanza 404. Aveva in mano una tavoletta con un fermacarte, e controllò accuratamente l’elenco fino alla lettera J, prima di lasciarli andare. La stanza era fredda e ufficiale come un tribunale, con lunghe panche affiancate a tavoli metallici. C’erano già numerosi padri e figli, e una donna, dalle labbra sottili e i capelli corti e neri, distribuiva dei fogli di carta. Il signor Jordan riempì il modulo e lo restituì all’impiegata. Poi disse a Dikie: - Non sarà una cosa lunga, vedrai. Quando senti chiamare il tuo nome, devi solo entrare in quella porta all’altro capo della stanza. – E gli indicò la porta con la mano. Un altoparlante nascosto crepitò e chiamò quindi il primo nome. Dikie vide un ragazzo più o meno della sua età, lasciare con riluttanza la mano del padre e dirigersi lentamente verso la porta. Alle undici e cinque chiamarono il nome di Jordan. – Buona fortuna, figliolo – disse il padre senza guardarlo. – Ti chiamerò quando il test è finito. Dikie si avvicinò alla porta e girò la maniglia. La nuova stanza gli sembrò buia e a malapena riuscì a distinguere la sagoma del funzionario in tunica grigia che lo salutò. – Siediti – disse gentilmente l’uomo, indicandogli un alto sgabello davanti alla sua scrivania. – Ti chiami Richard Jordan? – Sì, signore. – Il tuo numero di classificazione è 600-115. Bevi questo, Richard. Prese una tazza di materiale plastico dalla scrivania e la porse al ragazzo. Il liquido che vi era contenuto aveva la consistenza del siero di latte, e sapeva molto vagamente della menta promessa. Dikie lo mandò giù d’un fiato e restituì la tazza vuota. Sedette in silenzio, sentendosi invadere da una strana sonnolenza, mentre l’uomo scriveva con aria molto indaffarata qualcosa su un foglio. Dopo qualche tempo guardò l’orologio, poi si alzò, chinandosi in avanti fino a trovarsi a pochi centimetri dalla faccia di Dikie. Sfilò un oggetto simile ad una penna dal taschino della tunica e proiettò un sottile raggio di luce negli occhi del ragazzo. – Benissimo – disse. – Vieni con me Richard. Condusse Dikie all’altra estremità della stanza, dove una solitaria poltroncina in legno era disposta di fronte ad una macchina coperta di quadranti. Sul bracciolo sinistro della poltrona c’era un microfono, e, quando si sedette, il ragazzo trovò che la sua estremità filiforme gli arrivava proprio all’altezza della bocca. – Cerca ora di rilassarti, Richard. Ti saranno solo rivolte delle domande, e tu pensaci su bene prima di rispondere. Poi di le tue risposte nel microfono. La macchina penserà al resto. – Sì, signore. – Ti lascio solo ora. Quando vuoi cominciare basta che tu dica pronto nel microfono. – Sì, signore. L’uomo gli dette una stretta sulla spalla, e se ne andò. – Pronto – disse Dikie. Una fila di luci si accese sulla macchina, un meccanismo ronzò: Poi una voce disse: - Completa questa sequenza: Uno, quattro, sette, dieci … Il signore e la signora Jordan sedevano in soggiorno, senza dire una parola, senza nemmeno azzardarsi a pensare. Erano quasi le quattro quando squillò il telefono. La donna cercò di raggiungere per prima l’apparecchio, ma il marito fu più svelto. – Il signor Jordan? Era una voce secca, dal tono sbrigativo, ufficiale. – Sì, dite pure. – Qui è il Servizio Educazione Popolare del Governo Interplanetario. Vostro figlio, Richard M. Jordan, ha completato l’esame governativo. Ci rincresce informarvi che il suo quoziente di intelligenza è risultato superiore allo standard prescritto, secondo la norma 84, sezione 5, del Nuovo Codice Terrestre. Dall’altra parte della stanza, la donna cominciò ad urlare, senza ancora sapere nulla, se non l’espressione che aveva letto sul volto del marito. – Potreste specificare per telefono – proseguì la voce impassibile – se desiderate che il corpo sia inumato a cura del Governo, o se preferite una sepoltura privata? Il costo di una sepoltura governativa è di quattrocento dollari.
Post scriptum. Come il lettore avrà notato, abbiamo abbandonato il logo di “Avamposto 46”. È dura stare di sentinella quando nessuno ti viene a dare il cambio. La nostra unica lettrice, o meglio “ascoltatora”, che a 92 anni, cieca, si faceva leggere i nostri articoli da una nipote sorda, è mancata una settimana fa. Dio l’abbia in gloria, nonostante la sua tendenza alla truffa, pur se a fin di bene. Abbiamo, infatti, scoperto che aveva incaricato la nipote di spedire lettere con pseudonimi diversi, da svariati paesi della provincia di Brescia (erodendo buona parte della sua misera pensione) al solo scopo di farci giungere positivi commenti ai nostri scritti. Purtroppo tutte le lettere erano vergate con la stessa calligrafia, e non è stato difficile giungere alla conclusione, che le numerose missive provenivano da una sola persona. Grazie nonna. Ci mancherai. In pieno accordo con me stesso, e con l’amico Ermanno Uccelli, ho deciso di investire buona parte del nostro stipendio di giornalisti nell’assunzione part-time di una medium. Avrai così l’opportunità, cara nonna, di continuare a godere (o a soffrire) dell’ascolto delle nostre elucubrazioni. Seguendo il tuo saggio consiglio, abbiamo altresì deciso che la rubrica da oggi cambi la sua definizione; da “Avamposto 46” in “Carta sprecata”, termine sicuramente più adeguato alla superficialità dei nostri scritti, ed ai tempi correnti.
Mi lascio con una poesia di Prévert, un poeta dallo sguardo “largo”.
COMPITO IN CLASSE
Due e due quattro
quattro e quattro otto
otto e otto fanno sedici…
Ripetete! Dice il maestro.
Due e due quattro
quattro e quattro otto
otto e otto fanno sedici.
Ma ecco l’uccello-lira
che passa nel cielo
il bambino lo vede
il bambino lo ascolta
il bambino lo chiama:
Salvami
gioca con me
Uccello!
Allora l’uccello discende
e gioca con il bambino.
Due e due quattro…
Ripetete! Dice il maestro.
E gioca il bambino
e l’uccello gioca con lui…
Quattro e quattro otto
otto e otto fan sedici
e sedici e sedici che fanno?
Niente fanno sedici e sedici
e soprattutto non fanno trentadue
in ogni modo se ne vanno:
E il bambino ha nascosto l’uccello
nel suo banco
e tutti i bambini
ascoltano la sua canzone
e tutti i bambini
ascoltano la musica
e otto e otto a loro volta se ne vanno
e quattro e quattro e due e due
a loro volta abbandonano il campo
e uno e uno non fanno né uno né due
uno a uno ugualmente se ne vanno.
E gioca l’uccello- lira
e il bambino canta
e il professore grida:
Quando finirete di fare il pagliaccio!
Ma tutti gli altri bambini
ascoltano la musica
e i muri della classe
tranquillamente crollano.
E i vetri diventano sabbia
l’inchiostro ritorna acqua
i banchi ritornano alberi
il gesso ridiventa scoglio
la penna ridiventa uccello. |