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Mentre la vita lo sta abbandonando, il comandante Pankov pensa al compagno “Cecco” (Francesco Bertussi) e lo saluta con queste parole: “Arrivederci amico, per altre Resistenze, in altri luoghi, sotto altri cieli”. Altre Resistenze, di questo abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di vigilare continuamente, di cambiare noi stessi per cambiare gli altri. Hanno provato in questi giorni, dal Ministero di Viale Trastevere, a togliere dai programmi di Storia la Resistenza. Non ci sono riusciti, e questo è un buon segno. Ripartiamo da qui, e facciamo tesoro di quello che scriveva cinque anni fa Giorgio Bocca, (non è un comunista) nella prefazione della ristampa del suo libro più conosciuto: “Partigiani della montagna”.
“Quarantacinquemila partigiani caduti, ventimila feriti o mutilati, uno dei più forti movimenti di Resistenza d’Europa, gli operai e i contadini per la prima volta partecipi di una guerra popolare senza cartolina precetto, una formazione partigiana in ogni valle alpina o appenninica, la sofferta gestazione di un’Italia diversa: ed ecco, che sessant’anni dopo, dei professorini o dei diffamatori ci avvertono che era tutta un’invenzione, una favola, un mito. Ma quel mito non se lo sono inventati dei comunisti esperti in propaganda politica, quel mito è nato dai fatti di cui parlano le lapidi e i monumenti in tutte le città italiane. La distinzione tra l’antifascismo e la democrazia, è una falsa distinzione. Assistiamo ad un revisionismo reazionario che apre la strada alla democrazia autoritaria, da noi e nel resto del mondo. Uno di quei cicli storici che dimostrano che anche la libertà ha le sue stagioni. Non a caso nel presente il globalismo economico altro non è che un ritorno al colonialismo con cui l’antifascismo dello stato sociale, delle riforme democratiche non ha nulla da spartire. C’è stata una mutazione capitalistica, una rivoluzione tecnologica di effetto obbligato: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri ed emarginati. È questa la ragione di fondo per cui la Resistenza e l’antifascismo democratico appaiono sempre più sgraditi, sempre più fastidiosi al nuovo potere. Padroni arroganti e impazienti non accettano più una legge uguale per tutti, la legge se la fabbricano ad personam con il loro parlamenti di yes-men. In questo stato del potere è riapparso il ventre molle del paese, l’eterno qualunquismo che la Resistenza credeva di aver ripulito”.
Mercoledi 21 aprile, all’oratorio di Bovezzo verrà rappresentata l’opera teatrale: “Il coltello dalla parte della lama” del regista Fabrizio Foccoli. Il titolo è mutuato da una delle 25 “storie” che appartengono all’antologia sopra citata, che vi consiglio di leggere, o di rileggere se già la conoscete.
IL COLTELLO DALLA PARTE DELLA LAMA
La storia che segue è dolorosamente vera, non ho mai saputo il nome del protagonista, non gliel’ho chiesto l’unica volta che l’ho incontrato. Ho solo raccolto la sua confessione con un misto di pietà e di stupore. Fante dell’Esercito Italiano durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva trascorso mesi terribili in Albania, soffrendo la fame e la sete in un avamposto sperduto ai confini con la Grecia. Dopo l’otto settembre divenne partigiano, uno dei tanti che affollavano le montagne delle nostre valli. Feci la sua conoscenza circa trent’anni fa, in un’osteria duecento metri a sud dell’Ospedale Psichiatrico cittadino. Mi colpirono i suoi occhi persi nel vuoto, azzurri come un cielo invernale, le sue mani, due grossi ragni in continua lotta tra loro, e il viso, di una mitezza incredibile. Davanti a una mezzetta di vino, mi parlò della sua infanzia, del lavoro di ciabattino, dell’esecuzione dei suoi genitori, della lotta partigiana. Lo fece senza guardarmi, continuando a fissare la parete davanti a se.
Solo quando arrivò all’omicidio, si girò dicendomi: “I tranquillanti non servono, e la psichiatria neppure, nessuno può togliere o soffocare il rimorso dal cuore di un uomo che si sente colpevole.
Aspettai il maggio del ’45 per consumare la mia vendetta, approfittando della confusione che regnava in città. Lasciai che l’odio mi trasformasse, senza rendermi conto che la somma di due tragedie, l’addizione di due cose sbagliate, dà sempre un risultato negativo. Quello che mai ho perdonato al Fascismo, non è stata la morte dei miei genitori, ma l’aver tramutato uomini come me, gente pacifica e tollerante, in assassini”. Quando lo lasciai, duecento metri più a nord dell’osteria, davanti a quel cancello che sembrava una bocca spalancata sull’inferno, mi pose in mano un bossolo vuoto accompagnato da queste parole: “Tienilo sempre con te, e ricordati, non uccidere, non uccidere mai, se non sai tenere il coltello dalla parte della lama”.
Il coltello dalla parte della lama
“Diceva il nonno, che si può uccidere un uomo anche col manico di un coltello, se non hai paura di tagliarti le dita”.
Mangiavamo lumaconi rossi
cotti nel piscio,
bolliti negli elmetti di ferro.
Non tornarono in molti
dal fronte albanese,
io fui tra quelli,
orfano e senza patria,
confuso e stranito.
Il ricordo della morte dei miei
(ammazzati per aver ospitato un ribelle)
mi aveva devastato le notti.
Coltivai la mia rabbia
In campi seminati d’insonnia.
I mediocri mi dicevo
se la cavano sempre,
ma io lo conoscevo il colpevole
e contavo e ricontavo i proiettili.
Lo sorpresi una notte di maggio
nell’androne di un palazzo del centro,
bastò un solo colpo
preciso alla fronte,
come al porco o al vitello.
Mi allontanai con le mani tremanti,
le tasche piene di sangue.
C’è negli “Scritti sulla Resistenza Bresciana”: “… dei morti della Resistenza o dei morti civili occorre farne memoria, perché un popolo senza memoria storica, non merita la libertà di cui gode, ed è sempre in procinto di perderla”. |