Purtroppo, pur girando lo sguardo in ogni dove, di cultura ne vedo poca, e di saggezza ancor meno. Forse un giorno non lontano mi ritroverò a rileggere gli articoli miei e di Uccelli, pensando a quanto aveva ragione Prevert nei suoi versi: “Abbiamo sprecato il nostro tempo, ma era un tempo così cattivo. Volevamo mettere avanti le lancette della pendola, ma siamo solo caduti dalle scale”. Oggi mi accontento di rifugiarmi nella lettura dei classici, delle storie Zen, delle poesie di alcuni poeti (pochi) del Novecento, e di immergermi quasi quotidianamente nella semplicità profonda della saggezza pellerossa. Mi affascina in particolar modo la loro ostinata ricerca della “Visione”. A questo proposito, diceva un vecchio della tribù degli Ojibway: “Nessun uomo sarà mai se stesso, se non ha ancora avuto la propria “Visione”. Spesso gli indiani cercavano la solitudine per pregare digiunando. Talvolta perfino i piccoli digiunavano, ma era nel periodo della pubertà che gli adolescenti cercavano la “Visione”. Coda Gialla, uomo di medicina Crow, ci ha lasciato questa testimonianza: “Un uomo alla ricerca della “Visione”, sale sui monti, da solo. Lassù, lontano dal resto della comunità, prega, digiunando per tre o quattro giorni. Molte sono le ragioni che lo spingono a compiere questo passo. Alcuni, ad esempio, desiderano trovare una “medicina”, una forza che stia al loro fianco in battaglia, oppure nella vita in generale. Altri uomini, invece, cercano il potere della guarigione e la saggezza, con l’intento di curare i propri simili e risanarli. Altri ancora desiderano trovare la risposta ad una domanda o la soluzione di un problema in cui si trovino coinvolti loro stessi, la famiglia, o l’intera tribù.”
Se la ricerca della “Visione”, e il digiuno possono creare poesie come quella che segue, mi sa che per cercare di emulare il poeta dei Cochiti Pueblo autore della stessa, mi aspettano giorni molto tristi, e magri.
CHE IO SIA
Che io sia la fascia che ti cinge la fronte,
così vicina ai tuoi pensieri.
Che io sia il grano di mais,
frantumato dai tuoi denti selvaggi.
Che io sia, al tuo collo turchese,
caldo della tempesta del tuo sangue.
Che io sia la lana variopinta del telaio,
la lana che scivola tra le tue dita.
Che io sia la tua tunica di velluto,
sul flusso e riflusso del tuo cuore.
Che io sia la sabbia nei mocassini
che osa carezzare i tuoi piedi.
Che io sia il tuo sogno notturno,
quando, nelle nere braccia del sogno, tu gemi. |