Oggi si parla perlopiù di meditazione e pertanto sembra scomparsa l'idea degli esercizi spirituali, campo che la filosofia antica, e soprattutto quella stoica e cinica (ma che si ritrova anche in Platone e nel monachesimo cristiano), privilegiava come tecniche nella ricerca di un'etica.
Oggi chiamiamo saggezza quella che altro non è che una forma di autoconvincimento. Mentre nella storia della filosofia antica la saggezza è il contrario dell'autocompiacimento, dell'autosoddisfazione. È – per dirla con Pierre Hadot nel suo capolavoro Esercizi spirituali e filosofia antica «prerogativa degli dèi, il vero e proprio contrassegno che separa gli dèi e gli uomini».
Infatti la filosofia è per l'appunto l'amore per la saggezza, se la saggezza è concepita come una norma, un ideale, un valore trascendentale. Quasi inaccessibile. Ma il filosofo stoico sa che questa figura ideale di saggio non potrà mai realizzarla. E per questo (anzi forse proprio per questo) essa esercita su di lui una attrazione e suscita entusiasmo e amore; come un appello a vivere meglio, a prendere coscienza della perfezione da raggiungere. Nella concezione antica, la pratica ovvero l'esercizio della filosofia, la ricerca della saggezza, non può mai finire. Perché la saggezza è attiva. È un ideale a cui ci si può soltanto avvicinare. Mediante esercizi del sé. Insomma, il carattere ideale della saggezza fa sì che questi esercizi debbano essere sempre riattivati, sempre ricominciati.
È l'idea di cura di sé di cui parlava l'ultimo Michel Foucault. Che diceva essere la cura di sé "una pratica costante", nell'età ellenistica; una "cura permanente che dura per tutta la vita". E, per avvalorare ancor più questa concezione, cita una frase di Galeno: «Per diventare un uomo completo, ciascuno ha bisogno di esercitarsi, per così dire, per tutta la vita». Concetto che Foucault sintetizza così: «Occuparsi di sé non è, dunque, una semplice preparazione momentanea alla vita; è una forma di vita».
Non si può insomma aver cura di sé senza una attività che consiste appunto nel fare esercizio, nel fare un lavoro su sé stessi. Cosicché la trasformazione di sé che ne deriva, che ne risulta, suppone non un sapere dimostrato o un sapere rivelato, bensì un sapere praticato: vale a dire un saper fare, un saper vivere. Quello che Foucault chiama «un sapere spirituale». Che modifica o trasforma la maniera di essere. Il modo di esistenza di un individuo. Perché è qualcosa che possiede la qualità di trasformare il modo di essere di un individuo. Una trasformazione che passa attraverso l'etica dell'inquietudine. Una sorta di morale per rendere mobile la nostra immobilità. Una morale che potrebbe avere per motto «Distaccarsi da sé stessi».
Anche Hadot, del resto, afferma che una concezione giusta della figura del saggio deve tenere conto delle nuove condizioni storiche.
Potremmo dire che Foucault auspica una saggezza che sia come una estetica dell'esistenza. Che tuttavia non deve essere – come troppo spesso è – un tipo di realizzazione di sé psicologico (il culto californiano del sé), ma una estetica dell'esistenza che Foucault restringe in una frase indimenticabile: «L'arte di vivere è uccidere la psicologia».
Insomma, secondo Foucault, il bisogno di una estetica dell'esistenza comporta un nuovo atteggiamento verso noi stessi, un atteggiamento critico. Che sia volto alla ricerca delle condizioni e delle possibilità, ancora indeterminate, di una trasformazione del soggetto, di una trasformazione di noi stessi. Condizioni e possibilità che ci svegliano dal nostro sonno etico. E che esigono un prezzo da pagare.
Compito quindi di ciascuno di noi è quello di inventare per noi stessi gli esercizi di sé con i quali potere rianimare sia la nostra idea di etica sia le arti di vivere. Di queste ultime abbiamo perso la nozione, come se non potessimo ricollegare le arti di vivere all'organizzazione etica di una vita.
È una deformazione e una perdita che non dobbiamo continuare a sopportare.
Ermanno Antonio Uccelli |