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Ho provato sulla mia pelle un carcere blando, lieve e di breve durata. È successo durante il servizio militare. Insofferente alle regole e alle adunate, preferivo, alla rassegna ed all’appello del mattino, la pulizia delle latrine dei sottufficiali. Trovavo più umiliante farmi controllare i tacchi delle scarpe, che dovevano essere lucidi come le tomaie, o il viso, che si richiedeva rasato come il culo di un bambino, che “sgurare” in una nuvola di cloro, le tazze incrostate di lapislazzuli fecali dei sergenti. Motivi per mettermi in C. P. R.- Cella per rigore- ai miei diretti superiori, ne avevo dati parecchi. Vorrei ricordarne alcuni: furto senza scasso di un salame nelle cantine della mensa ufficiali (per fame); fuga dalla caserma per prelevare del caffè all’autogrill della tratta Civitavecchia-Roma; baionetta rovinata per aver ucciso, al poligono di tiro, alcune biscie d’acqua; richiami severi, per aver riempito le tasche di un tenente di orbettini, azione che lo aveva quasi condotto alla pazzia, (meno male che non eravamo in guerra).
È questa è solo una parte delle mie malefatte. Per cui, trovarmi in una prigione di quattro metri per due (più o meno le misure di una “moderna” cella) assieme ad una coppia di compagni di sventura, era solo la razionale conseguenza delle mie azioni. Ciò non toglie, che la galera, sofferta per soli tre giorni, mi ha segnato. Non per le sofferenze minime (edulcorate dai racconti delle rispettive esperienze di vita, che mi hanno permesso di conoscere realtà avulse al mio passato) ma, che - dilatando il tempo, dunque, non tre giorni, ma tre anni, dieci, trenta, quaranta - poneva degli interrogativi feroci, sulla condizione degli ergastolani o delle persone condannate a lunghe pene.
È labile il confine che ci divide dai delinquenti, molto più sottile di quanto voi, cari rari lettori, pensiate. Non tutti riescono a controllare il lato oscuro della propria mente. A volte non è onestà, o capacità, a volte è solo fortuna, o paura. Può capitare, un giorno qualunque, che un bimbo nasca in un campo Rom, ed un altro, nella famiglia di un noto politico (vedi alla voce “trota”). Dove sta il merito? Al primo, magari toccherà di rubare, o chiedere l’elemosina ai semafori. All’altro, forte dei circa trecentomila euro, che nel 2010, in seguito ai vari incarichi assunti o assegnati, percepirà, potrà apparire in televisione o essere intervistato da una rivista prestigiosa come Vanity Fare.
Cari rari lettori, non prendiamoci per i fondelli, in galera ci vanno e ci rimangono i poveri cristi. Il quarantatre per cento dei quali in attesa di giudizio, il primo. Alla faccia dei GaGa, galantuomini garantisti. I Politici, che, per gli appartenenti alla Casta, dicono che bisogna attendere il terzo grado di giudizio, prima che affrontino la vergogna della galera. I “tuttotenti”, responsabili indiretti di suicidi e di disgregazioni familiari, male che vada, finiscono agli arresti domiciliari, nelle loro ville con piscina, e parchi da diecimila ettari. Per loro, dieci, cinquanta, cento milioni delle vecchie lire per pagarsi fior di avvocati, sono quisquilie, pinzillacchere. Dopo aver foraggiato per anni tutti i partiti politici, pensate che un minimo di riconoscenza questi non gliela riconoscano? Stiamo attaccati come bimbi al seno, a programmi televisivi che ogni giorno ci uccidono mentalmente, a pubblicità, che le Multinazionali pagano profumatamente per strangolare la nostra capacità di astrazione. Pubblicità ingannevoli e fuorvianti, che ci conducono per mano nella direzione della nostra dissoluzione fisica e morale. In quelle scene, pietose parodie della realtà, non piove mai. Non c’è un protagonista che abbia la forfora, non c’è una donna con i bigodini, o con un pigiama sformato. Nessuno si soffia il naso o tossisce. I bambini sono perfetti, educati, lindi. Nessuno li picchia o li redarguisce. Le case sono luminose, pulite, e disinfettate più di una sala operatoria. Le madri preparano colazioni, pranzi, e cene, da leccarsi le rotule. Non c’è una anoressica o un ciccione (salvo che serva alla pubblicità).Le automobili viaggiano su strade deserte immerse in panorami mozzafiato. Non c’è un conducente con un capello fuori posto, o il sudore sotto le ascelle, o un unghia sporca. E la fine del viaggio, il portarsi alla meta, conduce sempre ad una villa maestosa dal giardino ben curato, dove una ragazza meravigliosa, giovane ed elegante, accoglie il conducente con occhi colmi di sensuali promesse. C’è da morir dal ridere, o da annegarsi nelle proprie lacrime.
Ma torniamo ai delinquenti, ai fuorilegge. Sono convinto che la miglior qualità di un poeta, non sia l’abilità nel gestire il rimario, ma il riuscire ad immedesimarsi nei personaggi di cui parlano i suoi versi.
Ritengo di essere riuscito in molte delle mie poesie a raggiungere un discreto risultato. Mi ha confortato, in questa situazione, la convinzione di alcuni studenti dell’Istituto Tecnico Industriale Statale, che la stesura dell’antologia “…della Resistenza” fosse opera di un vecchio partigiano, tanto li hanno trovati vissuti e convincenti. Con i carcerati e gli ergastolani, ho fallito. Mi arrovello da anni, ma non ho cavato un ragno dal buco, o tolto un politico dalla sua sedia. Per questo, “obtorto collo” mi servirò di alcune delle migliori poesie di Edgar Lee Masters. Versi che nella loro semplicità, arrivano diritti al nocciolo della questione, chiarendo come a volte siano le circostanze esterne a decidere il nostro destino.
Joseph Weelock
Voi giudici non ci badavate,
o non lo sapevate,
che io Joseph Weelock, il rapinatore,
facevo solo ciò che facevano i capitalisti,
e agivo imitandoli, per loro istigazione,
e con grande fantasia.
Il banchiere che derubai e uccisi
non derubò forse il comune
con interessi iniqui?
E non fu su tutti i giornali?
Voi non lo accusaste.
Ma cosa non avete fatto per potermi impiccare:
deste la libertà al mio compagno di cella
in cambio dello sporco compito
di guadagnarsi la mia confidenza,
per farmi parlare!
Le vostre leggi,
sono soltanto la vostra volontà
che piega e spezza leggi migliori.
Aner Clute
Molte e molte volte mi chiesero,
mentre pagavano il vino e la birra,
prima a Peoria, e poi a Chicago,
Denver, Frisco, New York, dovunque vissi,
perché mai facessi la vita,
e come avevo cominciato.
Dicevo, un abito da seta,
e la promessa di un riccone.
Ma non fu questo.
Immaginate che un ragazzo rubi una mela
dal cesto di una drogheria,
e tutti si mettano a chiamarlo ladro.
Il giornalista, il prete, il giudice, tutti.
“Ladro”, “Ladro”, “Ladro”,
dovunque vada.
E non possa trovare lavoro,
né guadagnarsi il pane se non rubando:
ebbene, quel ragazzo ruberà.
Il modo come la gente considera il furto
è ciò che rende ladro il ragazzo. |