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 Nr.10 del 30/04/2007
 
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VIVA LA SCUOLA


Ho cominciato a frequentare la scuola come tutti i “ragazzi” della mia età, nell’ottobre del ’54, prima di aver compiuto i quattro anni.
Nonostante il balcone di casa mia, distasse meno di trenta metri in linea d’aria dalla scuola materna, e mia madre fosse frequentemente di sentinella, quando ero nei “piccoli”, sono fuggito dall’asilo con il mio cestino della merenda di plastica gialla.
Questo è solo l’inizio. Il bigiare scuola, probabilmente era insito nel mio dna dalla nascita. Forse il nonno paterno o il bisnonno materno, erano stati asini con tre orecchie come me, o forse no.
Tant’è che in terza elementare reiterai la mia fuga dalle istituzioni scolastiche.
Avevo otto anni, ed era un mercoledì di un mese piovoso, non riesco ad essere più preciso.
La decisione l’avevo maturata la sera prima, forte di uno scambio vantaggioso, tra biglie e fumetti, che mi aveva procurato di che leggere per almeno cinque o sei ore.
Un piano congegnato con tutta l’intelligenza della mia verde età: otto anni interamente vissuti.
Due pani accuratamente biscottati nella stufa a legna, due cioccolate con graniglia di nocciola, avvolte in una carta stagnola color oro, caratterizzate da una coppia di “francobolli” 4x3 raffiguranti dei guerrieri pellerossa. L’acqua sapevo dove trovarla.
Avevo la mia “sala di lettura”, un enorme castagno duecento metri a nord della località “Stalle”.
Alla base c’era una piccola grotta naturale di radici, che con l’ausilio di un ombrello di tela nera, avrebbe creato un piccolo luogo intimo lontano da tutto e da tutti.
Non mi vergogno ad ammettere, che già dalla terza elementare, dopo giorni e giorni di prove (magari mi fossi applicato così nello studio), ero in grado di imitare alla perfezione le firme sia di mio padre che di mia madre. Ero diventato talmente abile nella falsificazione che avrei sicuramente tratto in inganno qualunque impiegato di banca. Purtroppo i miei genitori non conoscevano il significato del vocabolo banca, e non avevano niente da depositare sullo sconosciuto “conto corrente”. Bei tempi quando l’aggettivo “superfluo”, non aveva ancora il senso e il diritto di esistere. Stranamente fui licenziato dalla quinta elementare con il massimo dei voti.
Come conseguenza, in prima media fui nominato capoclasse.
Il grado durò meno di due mesi. Fui destituito per aver rifiutato di segnalare i buoni e i cattivi sulla lavagna. La cosa si ripetè per altre due volte nella scuola e una volta persino durante il servizio militare, quando da caporale maggiore fui degradato a caporale semplice.
A diciotto anni, dopo aver superato il terzo anno dell’Istituto Tecnico Industriale, disgustato dalle continue schermaglie con i professori, abbandonai definitivamente la scuola.
Abbandonai la scuola, ma non l’idea che la cultura fosse l’ultima arma che le persone
oneste potessero impugnare contro una classe politica che da anni per tutto lavora, meno che per il benessere dei propri datori di lavoro, che siamo noi, i cittadini.
C’era qualcosa che non andava nella scuola di quarant’anni fa, e c’è qualcosa che non va nella scuola di oggi. Mancanza di soldi e di investimenti, poca professionalità da parte degli insegnanti.
L’insegnamento della Storia che si ferma sempre anni e anni prima dell’attualità.
Agli alunni non vengono mai consegnate le chiavi per aprire le porte del presente.
La scuola dovrebbe essere altro. Una fucina di idee e iniziative, un proliferare di laboratori di musica, di poesia, di teatro. Un luogo aperto ventiquattrore su ventiquattro, che dovrebbe affiancare o integrare, gli oratori, le discoteche. Ogni ragazzo è un universo in continua espansione.
Non è una persona da punire, o su cui scaricare le svariate nevrosi che la classe insegnante mostra purtroppo d’avere. Comprensibili, dato lo stipendio inadeguato e la poca considerazione che la società attuale mostra di avere nei loro confronti.
Vi assicuro cari professori che c’è di peggio, di molto peggio.
Nei cantieri, nelle officine, nelle fabbriche, muoiono circa centoventi persone al mese, molti rimangono mutilati, qualcuno rimane invalido in modo permanente.
Sappiate che la società sarà migliore, se voi riuscirete a creare uomini migliori. Vi si chiede un grande e ulteriore sacrificio, purtroppo non ci sono altre strade da intraprendere, e voi siete la nostra
unica speranza.

Vi lascio con una poesia di Prévert, un poeta in perenne rivolta. Lo è stato sempre, fin da bambino, quando a quattordici anni lascia la scuola, preferendole la cultura della strada.
La traduzione sfortunatamente è mia. A quarant’anni di distanza dall’ultima lezione di francese,
ho cercato di fare del mio meglio.

Lo scaldabanchi

E l’alunno dice no con la testa,
ma dice si con il cuore,
egli dice si a chi ama,
e dice no al professore.
Ribatte ritto in piedi
a tutte le domande,
e tutti i problemi son posti.
All’improvviso,
un folle riso lo prende,
e lui confuta e cancella
le cifre, e le parole,
le date e i nomi,
le frasi ed i tranelli.
E malgrado le minacce del maestro,
tra li schiamazzi presuntuosi
degli “enfant prodiges”,
con gessi di tutti i colori
sulla lavagna nera e triste dell’aula,
egli disegna il volto della felicità.



È molto facile sparare a zero sulla scuola; anzi è uno sport sempre più gettonato. Forse perché, nonostante tutto, molte aspettative sono poste ancora lì, nella capacità della scuola di proporre qualcosa di più nobile e più alto di quanto viene quotidianamente propinato agli adolescenti-consumatori.
Io credo fortemente nella scuola, e proprio per questo voglio segnalare alcuni atteggiamenti che fanno male ad essa.
“Professore, perché ha dato cinque a mio figlio? Poverino, c’è rimasto di un male…”

Eccessiva tutela da parte dei genitori nei confronti del figlio: sempre più i genitori “parteggiano” per il figlio, cercando di tutelarlo da qualsiasi frustrazione; c’è chi vede in questo atteggiamento una normale dinamica, legata per esempio alla crescente preparazione culturale dei genitori oppure al giustificato desiderio di volere sempre il meglio per i propri figli. In realtà vedo intervenire altri fattori: il crescente senso di colpa dei genitori, che dedicano sempre minor tempo ai figli e cercano di riguadagnare terreno proteggendoli dal mondo; oppure la presenza di mamme che si comportano come se fossero loro le alunne, e che vivono davvero come insuccesso personale l’eventuale insuccesso scolastico del figlio. La mia modesta esperienza di dieci anni di insegnamento nelle scuole superiori mi dice che i figli più SANI ed EQUILIBRATI hanno genitori che a colloquio mi dicono: “me racomande, se el me fiöl el fa mia el brao, el ghe daghes en scapelòt”; nessuno darà “scappellotti” al figlio, ma la dinamica educativa risulterà più efficace in quanto chiara per l’adolescente, senza confusioni di ruolo o patteggiamenti di sorta.
“Adesso devo andare in laboratorio di informatica, solo a pensarci mi si rivolta lo stomaco”.

Impreparazione e demotivazione dei docenti: è inutile negarlo, alcuni docenti sono impreparati e poco motivati (le due caratteristiche viaggiano sovente affiancate). Per questo non vedo che un rimedio:controlli e valutazione. Ancora oggi mi chiedo come sia possibile che in dieci anni di insegnamento nessuno sia venuto a chiedermi conto di come lavoro, a verificare il mio livello di preparazione, la mia capacità di fare lezione, di stare con i ragazzi. Credo che in nessun’altra professione ci sia un livello di libertà come in quella dell’insegnante; ma il principio dell’autonomia didattica si è trasformato in un paravento per incompetenti, piuttosto che in un motore di responsabilità. E che peccato per i sindacati che tutelano i fannulloni! Qualcuno ha il coraggio di dire che un motivo ci sarà se un professore ad esempio di 45 anni, dopo aver tentato vari concorsi ordinari e riservati, è ancora precario? Che senso ha immettere in ruolo senza controlli, solo per tenere buoni i sindacati? Fare l’insegnante non è un diritto!
“In quella classe c’è tutta la feccia della scuola”.

Disprezzo nei confronti dei ragazzi: fare l’insegnante richiede un minimo di passione educativa, di simpatia/empatia per le vite che incontriamo ogni giorno. Quanti sguardi di disprezzo nei confronti dei ragazzi; quanti sospiri di sollievo quando l’alunno che disturba si ritira da scuola e così, finalmente, la classe è tranquilla e “adesso sì che si può lavorare”. Condannare questi atteggiamenti non significa “stare dalla parte dei ragazzi” o giustificarli; significa sapere di avere di fronte uomini e donne in crescita, saturi di energie a volte dirompenti a volte soffocate, pieni di risorse, crisi, dubbi, ma tutti con un disperato bisogno di insegnanti-adulti che non offrano debolezza e astio, ma fermezza, sorriso e coerenza.
“Professore, ha firmato il modulo di assunzione di responsabilità?”

Deresponsabilizzazione: per ogni iniziativa l’insegnante deve firmare il modulo di “assunzione di responsabilità”; durante la ricreazione i docenti sono tenuti alla scrupolosa sorveglianza dei ragazzi, perché sono responsabili; addirittura durante le assemblee di classe o di istituto siamo obbligati a presenziare perché siamo responsabili di qualsiasi cosa accada. L’effetto di tutte queste assurdità è stato ovviamente quello di non fare sentire i ragazzi più responsabili di alcunché! In ogni luogo e momento si trovano l’adulto, che è lì, responsabile per loro!
Vorrei una scuola viva, aperta il pomeriggio, con mense in cui i ragazzi mangiano insieme; vorrei una professione che non sia più un part-time per mamme, ma che sia a tempo pieno, ben remunerata e ben valutata; vorrei una scuola senza confusione di ruoli tra docenti e non docenti (perché mai, all’interno delle Rappresentanze Sindacali Unitarie un bidello discute e decide quanto dovrà prendere un docente per le attività aggiuntive all’insegnamento? Ma stiamo scherzando?). Vorrei una scuola che sia più attenta alle intelligenze collaborative, oltre che a quelle individuali. Vorrei colleghi più disponibili al cambiamento, a rimettersi in gioco, a collaborare.
La strada del pessimismo è la più comoda; tanti vedono nei ragazzi solo noia o sballo, a prescindere da quanto viene loro offerto. Invece so per esperienza che gli adolescenti sono capaci di sorprendere e di stupire; ma non hanno bisogno di professori frustrati, di adulti-adolescenti, di padri-assenti che li riempiono di regali, di madri che non allattano “per non rovinare il seno”, di bambinoni che passano il tempo a vedere Sky, di adulti che piangono e soffrono per 10000 Euro in un pacco. Hanno bisogno di adulti sereni e fermi; che li portino a vedere il cielo e le stelle e che facciano nascere in loro sogni da realizzare. Non lasciamoli soli.

Stefano Corini
Insegnante di matematica e fisica



Grazie Stefano, per il tuo scritto, che condivido pienamente, è una soddisfazione conoscere anche solo attraverso le parole scritte, un professore che ama il proprio lavoro. Sono felicemente sposato con una professoressa che vive la scuola come una missione, e mi rendo conto giornalmente delle difficoltà che incontrate nel rapporto con genitori e studenti. Sono un artigiano, e teoricamente dovrei essere la persona meno indicata ad occuparmi ed a preoccuparmi della scuola. Non è così, anche se non avessi un figlio, continuerei ugualmente a scrivere ed a parlare di scuola ed istruzione. Può essere che tu conosca la poesia che segue, e può darsi che non sia così.


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