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 Edizione del 09/05/2011
 
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I viaggi, fra mito e scienza
Lo sappiamo, lo sappiamo bene, che la nostra cultura storica è eurocentrica. Complice (anche) del successo clamoroso e totale degli europei, una serie di circostanze favorevoli


   Vela a giunca cinese


Circvostanze che, prima, non si erano potute realizzare e che poi, in modo miracoloso, combaciarono tra di loro come pezzi di un gioco di pazienza: all'inizio del Quattrocento.
Fu proprio in tale tempo, esattamente nel 1405, che un’imponente flotta cinese lasciò i mari della Cina. Erano 64 navi. Gigantesche giunche di 120 metri. Molto più grandi della media delle navi europee. Avevano vele di bambù sorrette da (fino a) nove alberi. Erano capaci di tenere il mare più a lungo. Venivano guidate da piloti che adoperavano strumenti navali di misurazione (molto) più sofisticati di quelli in uso nelle marine occidentali. Avevano carte nautiche assai più precise.
Questa imponente flotta aveva lasciato la Cina e aveva raggiunto l'Africa. Lungo l'itinerario che aveva percorso – e andava facendo – creava piccole colonie e quei depositi e magazzini di merci che gli antichi mercanti erano autorizzati ad aprire in empori stranieri. Quello che, qualche secolo più tardi, avrebbero fatto gli Inglesi per sostenere il loro impero commerciale più che politico.
Per le navi del Celeste Impero, o dell'Impero di Mezzo, come veniva chiamata la Cina sia in Occidente che in Oriente, fu questa la prima incursione che esse compirono in un territorio che avevano sempre ignorato. Cui ne seguirono altre cinque o sei. Della stessa imponenza della prima. Che si scaglionarono in un periodo di quasi trenta anni. Spedizioni attuate con centinaia di navi. Le quali potevano portare «decine di migliaia di uomini». Una gigantesca manovra strategica. O almeno così sembrava. Una manovra che l'Impero di Mezzo compiva attirata dal vuoto di potere ad ovest dell'Oceano Indiano. Ma "sembrava" solo perché, nel volgere di qualche mese, quasi di colpo, con una rapidità impressionante, le basi vennero smantellate, i soldati reimbarcati, e le navi volsero la prua verso oriente. E non tornarono più. Mai più. Una sorprendente decisione non c'è dubbio. Dopo la quale la Cina si ritirò in un altezzoso e rovinoso isolamento.
Questo per comprendere appieno che i marinai europei non erano gli unici al mondo capaci di attraversare gli oceani.
Già si erano cimentati gli arabi, ad esempio. Che avevano circumnavigato l'Africa. Ed erano nelle condizioni di esplorare il Pacifico, se le loro eterne divisioni non avessero sconsigliato un simile viaggio che toccava terre musulmane tra loro nemiche. Per non dire dei maori i quali avevano data la dimostrazione di quanto straordinaria fosse la loro conoscenza della vita marinara e di quanto assolutamente precisa la loro interpretazione di segni nel mare e nel cielo che gli europei sfuggivano nel modo più totale: i maori attraversarono il Pacifico dalla Nuova Zelanda alle Hawaii.
Ma c'erano anche gli indiani d'America. Non forse (molto) interessati alla scoperta del loro paese, ma certo curiosi di attraversare l'Atlantico in senso inverso. Tuttavia a quel tempo essi andavano ancora a piedi perché i cavalli sarebbero arrivati con gli spagnoli, e figurarsi le caravelle.

Certo, la Cina aveva una tecnologia molto avanzata, ma era (anche) troppo lontana per pensare ad inoltrarsi così ad ovest, oltre l'Africa: avrebbe fatto prima a dirigersi dall'altra parte del globo. E poi si deve pensare che, alla base, c'era un continente rinnovato. Irriconoscibile. Soprattutto rispetto a periodi precedenti; uscito dal letargo della peste nera e scampato al pericolo mongolo. Era una Europa vitale. Audace e aggressiva. Sospinta verso il mare da una generazione che voleva andare alla ricerca di nuovi mondi «per la gloria e per l'oro», come dirà Raleigh, il favorito di Elisabetta I di Inghilterra. Che infatti partì e andò alla ricerca di nuove terre e chiamò la regione del Nuovo Mondo circostante alle sue scoperte, Virginia. (e.a.u.)


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