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Lo scrittore statunitense dimorò per due anni (dal 1845 al 1847), in una capanna sulle rive del lago Walden, in Canada. Frutto di questo soggiorno una serie di libri assai interessanti: da Walden ovvero la vita nei boschi (1854), ai Diari, pubblicati postumi.
Noi abbiamo bisogno della natura. Sia perché ne facciamo parte, ma anche perché essa è del tutto indispensabile al nostro benessere psicofisico. Difficile far capire questo (semplice) messaggio. È problematico perché la maggior parte della gente coglie, in modo immediato, che cosa vuol dire aver a che fare con problemi come l'inquinamento, ad esempio. Oppure il riscaldamento globale. Questo perché si sente colpita in modo diretto. Se e quando l'incontro con la natura riguarda invece conseguenze come l'estinzione di specie viventi, o la distruzione dell'ambiente naturale – che sono peraltro irreversibili –, ma non così immediate e dirette, ci sentiamo poco (o per nulla) coinvolti, senza capire e renderci conto che, ad essere in gioco, è il nostro futuro.
Questo tipo di atteggiamento mentale (e di comportamento) sembra del tutto ovvio e scontato: a parole tutti amiamo la natura; ma nei fatti non ci comportiamo come se la amassimo. Anche se, per la verità, percepiamo l'impatto con la natura come una variabile che investe il nostro benessere. Un tema fondamentale, questo, sul quale gli scienziati non si sono ancora addentrati con rigore e con adeguate e approfondite riflessioni. Vi sono tuttavia degli studi che dimostrano come gli esseri umani preferiscano abitazioni che si trovano su un rilievo. Oppure vicino ad uno specchio d'acqua. O ad un’area verde. Così come sappiamo che in noi c'è come una tendenza innata a trarre piacere dalla presenza di creature viventi; dalla vicinanza di habitat e ambienti naturali, perché li viviamo e riconosciamo come ideali.
Che vi sia un nostro legame con la natura lo conferma il fatto che la più gran parte delle nostre paure più profonde sono legate a fenomeni naturali: fobie che riguardano ragni e serpenti, altezza o spazi aperti…
Sappiamo che i nostri antenati vivevano sugli alberi. Si nutrivano di frutti e di bacche. Quando dovevano far fronte ad un pericolo essi, che erano scimmie, non dovevano fare altro che salire di qualche ramo: sempre più in alto. Qui essi continuavano ad alimentarsi con un frutto. O una bacca. A meno che… A meno che, nei paraggi, non ci fosse un rettile. Perché i rettili erano gli unici predatori dei nostri antenati. Un fatto, questo, che spiega (anche) perché, ancora oggi l'ofidiofobia è, insieme a quella dei ragni (aracnofobia), la più comune delle fobie legate agli animali. Che non ha una spiegazione razionale: si pensi solo che le punture di api, calabroni e vespe uccidono, ogni anno, più persone di quante non siano quelle che muoiono per i morsi dei serpenti. Però la nostra avversione per i serpenti affonda in un passato che risale a cinquanta milioni di anni fa. E questo fa la differenza. Tanto da portare i serpenti in vetta alle paure del 38 per cento delle donne e del 12 per cento degli uomini. Dati che sono stati rilevati da un sondaggio effettuato negli Usa. Insomma, il terrore che abbiamo dei serpenti è scritto, fin dalla nascita, nel nostro cervello. Ciò è tanto vero che lo zoologo George King ha scoperto che, in natura, undici specie di primati mostrano un terrore istintivo verso i serpenti. I cercopitechi verdi hanno persino una parola di allarme che usano quando avvistano un rettile. Cosicché sembra proprio che il cervello di molti primati, compreso il nostro, sia predisposto verso un certo grado di ofidiofobia. pronta a manifestarsi al primo stimolo. Un’ipotesi suffragata dal nostro apparato visivo che sembra essere particolarmente adatto a «vedere serpenti». Esperimenti condotti in questa direzione hanno reso chiaro che immagini di serpenti, mescolate con quelle di altri oggetti o animali, venivano individuate molto più velocemente.
Sorge, spontanea ed immediata, una domanda: perché tutta questa attenzione verso un animale che, pur se pericoloso, non è certo comparabile – in termini di minaccia – ai lupi, alle aquile, ai grandi felini? La risposta: la guerra fra noi (i primati) e i serpenti è iniziata prestissimo: 50 milioni di anni fa. Quando i dinosauri non esistevano più. Quando i grandi mammiferi carnivori e gli uccelli rapaci ancora non erano apparsi. I nostri antenati, che erano molto più piccoli di noi, sarebbero vissuti tranquillamente sugli alberi. Non vi erano predatori in grado di seguirli fin sui rami più alti. Con un’unica eccezione: i serpenti velenosi. Apparsi 60 milioni di anni fa. Forse proprio per cacciare i mammiferi più agili. Serpenti che devono aver tormentato non poco l'esistenza dei nostri antenati. Lasciando che sopravvivessero solo quelli che li evitavano grazie ad un terrore innato. Il quale, di generazione in generazione, è arrivato sino a noi.
A tutto questo si aggiunge l'ipotesi della savana, secondo la quale l'umanità avrebbe avuto origine nelle savane e nelle foreste africane. Non a caso le acacie, considerate tra gli alberi più attraenti, sono un elemento dominante delle savane africane. Non c'è da stupirsi: esplorare ambienti nuovi e sconosciuti è una componente fondamentale della nostra natura. Senza mistero, la vita si impoverisce; la nostra mente si paralizza. E non dobbiamo dimenticare che il rapporto che abbiamo con l'ambiente, influenza il nostro atteggiamento nei confronti dell'esistenza. Con ciò intendo che noi siamo parte della vita che ci circonda. Siamo animali molto speciali, ma comunque animali, che si sono evoluti in questa biosfera e che condividono i loro antenati più remoti con ogni altra forma di vita. E, come ogni altra forma di vita, abbiamo bisogno di un ambiente sano. Cerchiamo di non dimenticare mai che noi siamo responsabili della biosfera, di questo involucro esterno alla superficie terrestre che tiene insieme gli organismi viventi. Come a dire: siamo noi, oggi, a dover pensare per lei.
Ermanno Antonio Uccelli |