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Jo Dallera in una foto ''segnaletica'' risalente all'anno 1955 |
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“Agli esami di ginnastica il professore ci buttò un pallone e ci disse: - Giocate a pallacanestro –. Noi non si sapeva. Il professore ci guardò con disprezzo: - Ragazzi infelici –“.
(tratto da “Lettere ad una professoressa” di Don Milani)
Questa settimana, a continuazione dell’articolo del 30 aprile scorso, voglio dedicarvi una delle cose migliori che mai siano state scritte sull’insegnamento: una poesia del poeta libanese Gibrain Kahlil Gibrain, tratta da una delle sue antologie più conosciute, “Il profeta”.
E un maestro domandò: Parlaci dell’insegnamento.
Ed egli disse:
Nessuno può insegnarvi nulla,
se non ciò che in dormiveglia
giace all’alba della vostra conoscenza.
Il maestro che cammina all’ombra del tempio,
tra i discepoli, non da la sua scienza,
ma il suo amore e la sua fede.
E se egli è saggio non vi invita
ad entrare nella casa della sua scienza,
ma vi conduce alla soglia della vostra mente.
L’astronomo può dirvi ciò che sa degli spazi,
ma non può darvi la propria conoscenza.
Il musico vi canterà la melodia che è nell’aria,
ma non può darvi il suono fissato nell’orecchio,
né l’eco della voce.
E il matematico potrà descrivervi
regioni di pesi e di misure,
ma colà non vi potrà guidare.
Giacché la visione di un uomo
non presta le sue ali ad un altro uomo.
E come Dio vi conosce da soli,
così tra voi ognuno deve essere solo
a conoscere Dio,
e da solo comprenderà la terra.
Da uno degli affiliati della “Confraternita dei cercatori di scaglie” un gruppo di cui vi parlerò in un prossimo futuro, ho ricevuto due interessanti “scaglie”, una, tratta da “La cultura dell’educazione” di J. Bruner, l’altra, da uno scritto di Sigmund Freud datato 1910.
“La scuola costituisce solo una piccola parte degli strumenti di cui una cultura dispone per iniziare i giovani alle sue forme canoniche. La scuola, anzi, può addirittura essere in contrasto con gli altri sistemi adottati da una cultura per insegnare ai giovani le regole della vita in comunità. In quest’epoca di profondi cambiamenti ci si interroga su quello che devono fare le scuole o su quello che, dato il peso delle circostanze esterne, possono fare. Le scuole si devono proporre semplicemente di riprodurre la cultura, di uniformare i giovani ad uno stesso stile, trasformandoli in tanti piccoli americani o tanti piccoli giapponesi? Oppure, in considerazione delle trasformazioni radicali che stiamo vivendo, le scuole farebbero meglio a dedicarsi all’ideale altrettanto rischioso e forse altrettanto donchisciottesco di preparare gli studenti ad affrontare il mondo in evoluzione che dovranno abitare? E come faremo a decidere come sarà quel mondo e cosa richiederà loro? …una cosa è diventata sempre più evidente: l’educazione non riguarda solo problemi scolastici tradizionali quali il curricolo, i voti e le verifiche. Quello che decidiamo di fare nella scuola ha senso solo nel contesto più ampio degli obiettivi che si propone di raggiungere la società attraverso l’investimento nell’educazione dei giovani. Abbiamo finalmente capito che il modo di concepire l’educazione è una funzione del modo di concepire la cultura e i suoi scopi, espressi e inespressi”.
Scriveva Sigmund Freud: “La scuola secondaria deve fare più che evitare di spingere i giovani al suicidio; essa deve creare in loro il piacere di vivere e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i legami
con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò che è quello di offrire un sostituto alla famiglia e di suscitare interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo…
La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo.
Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità, propria della vita; non deve voler essere più di un gioco di vita.
Vi lascio con una considerazione sulla scuola di uno dei “cercatori di scaglie”, e con un breve scritto di Eduardo Galeano su cui vi invito a meditare.
Renzo, Carlo, Luca, Ravy, Gianfranco, i miei amici veri, li ho conosciuti tutti lì, sui banchi di scuola, o meglio, attorno ai banchi di scuola, o meglio ancora, lontano dai banchi di scuola, nelle super sfide a calcio e a ping pong, negli infiniti pomeriggi all’oratorio, nelle interminabili estati a Bovegno, nelle nottate davanti al fuoco o a fianco di una stufa a legna. Già, a quindici anni si è stupidi davvero, quante balle si hanno in testa a quell’età. Sono passati vent’anni da allora, siamo ancora qui, ed oggi camminiamo in silenzio lungo una salita di montagna, in una mattina d’inverno.
Il teorema di Pitagora, le grida manzoniane e la costante di Boltzman, sono rimasti indietro, sui libri di scuola. (GARRET)
LA SCUOLA DEL MONDO ALLA ROVESCIA
Nei paesi più poveri della Terra, per imparare a vivere, i bambini devono frequentare la “Scuola del mondo alla rovescia”, dove apprendono: che la povertà è il giusto castigo per l’inefficienza, la disuguaglianza una legge naturale, che la realtà è quella che si vede in televisione e il crimine è nero o giallo, ma mai bianco.
I bambini e le bambine sono al servizio gratuito del mercato mondiale. Li trovi nelle discariche di Città del Messico, di Manila, o di Lagos, dove raccolgono vetri, lattine, carta.
Si immergono nel mare di Giava per cercare perle, cercano diamanti nelle miniere del Congo, sono le talpe nelle miniere del Perù. Raccolgono il caffè in Colombia, nel nord dell’India si sciolgono nei forni del vetro e nel sud nei forni dei mattoni. Posano binari in Birmania, cuciono palloni in Pakistan e scarpe da calcio in Vietnam. In alcune località dell’Africa, del Medio Oriente, dell’America Latina sono reclutati a forza negli eserciti. La prostituzione è la “Scuola del mondo alla rovescia” per milioni di bambine. Chi non muore di stenti, muore di Aids o di fame.
La nostra Scuola, impartisce lezioni a bravi consumatori. Ha perso la bussola, è una zattera abbandonata in mezzo all’oceano. Un coacervo di informazioni oggettive, dove la coscienza nasce, si forma, e si sviluppa nei centri commerciali della propria città.
E se vi sembra che non ci sia abbastanza sale sul “pretzel”, aggiungiamo una delle storie più intriganti dei vecchi filosofi Zen, che ha per titolo: “Una tazza di tè”.
Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-19129), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuo a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “é ricolma. Non ce n’entra più!”. Come quella tazza, disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture.
Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?”.
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