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venerdì 22 novembre 2024 | 08:31
 Edizione del 05/03/2012
 
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A proposito del 18
In questi giorni in cui si discute molto di ''articolo 18'' dello Statuto dei lavoratori (ma la discussione è ciclica, se non ripetitiva direi)

Ho notato molta sufficienza da parte dei media a trattare la questione: pochissimi dibattiti tecnico/informativi sulla norma in discussione e moltissimi articoli o talk show ideologici.
Il perché di tale “taglio” mediatico alla questione, portata avanti anche da molti politici di professione, è secondo me il voler togliere polpa e senso all’articolo stesso e “buttarla in contrapposizione politica destra-sinistra, Confindustria –Sindacati, solo allo scopo di decretare la fazione vincente e di conseguenza legittimarla a proferire il verbo.
Cosa significhi in termini di norma, cosa comporti in termini legislativi tale articolo non è interesse della discussione stessa, visto che la semplificazione che molti fanno è assolutamente non veritiera di quanto riporta tale regola.
Il divieto di licenziare NON È l’obbligo di riassunzione o di pagamento di una quota pro-forma nel caso di licenziamento ingiustificato come recita l’articolo. Sarebbe come dire che da parte di vigili o carabinieri o di chi per loro c’è il divieto di dare le multe al posto di dire che c’è da parte dei multati la possibilità di ricorrere in tribunale contro una sanzione ritenuta ingiusta e vedersela togliere (sempre che il giudice ti dia ragione).
A chi giova quindi storpiare questa norma per renderla agli occhi di tutti come un privilegio della casta dei “dipendenti privati occupati in aziende con più di 15 dipendenti” (una casta di superprivilegiati non c’è che dire…)?
A chi giova metterla sul piatto della bilancia per farne merce di scambio con la paventata necessaria flessibilità?
L’articolo 18 è un diritto sancito dallo Statuto dei lavoratori, chiedo a tutti se togliere diritti sia sinonimo di miglioramento dello stato sociale di una nazione intera o sia un peggioramento. Togliere diritti perché alcuni dipendenti li hanno (sempre quelli delle aziende con più di 15 lavoratori) e altri non li hanno è una battaglia di retroguardia, la vera battaglia è allargare lo stato di diritto anche a chi questi diritti non li possiede.
Qualcuno fa pure del facile populismo parlando di difesa dei diritti di categoria: che parlassero dei propri diritti da togliere non di quelli degli altri, visto che la maggior parte dei giornalisti e dei politici è sempre pronta al grido di “armiamoci e partite!”.
E non accetto neppure la critica alla difesa dei diritti senza assunzione di doveri: i doveri ci sono e nessuno dalla parte degli industriali ha mai pensato a toglierne qualcuno di fondante x bilanciare la cancellazione di questa norma.
Chiudo ricordando i dati usciti nei giorni scorsi riguardo all’utilizzo dell’articolo in questione nelle cause di licenziamento (Ansa 06/02/2012): solo nell’1% dei casi, circa 300 in media negli ultimi cinque anni, si è deliberato in nome del tanto odiato articolo 18. Si tratta di 300 lavoratori su 20 milioni che ricorrono a quest’articolo nelle loro cause intentate contro licenziamenti ritenuti ingiusti. E la domanda sorge spontanea: chi ha interesse a mettere in discussione una regola che coinvolge l’1% annuo dei lavoratori? E perché ne ha interesse? Davvero il coinvolgimento di “tutti” questi lavoratori determina l’immobilità italiana nel campo della flessibilità lavorativa? Ideologia allo stato puro, io sono convinto che questo sia l’unico scopo di questo attacco ad un “diritto di civiltà” come sancito nello statuto dei lavoratori.


Ravizzola Gianpaolo
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