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 Edizione del 05/07/2012
 
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Il ragazzino
Mi hanno presentato un ragazzino di tredici anni. Mi chiamo David ha detto

E sono ateo, ha aggiunto. L'ha detto con orgoglio, come se fosse stato fiero di quel proposito.
L'ho guardato (con simpatia), gli ho sorriso e non gli ho risposto. Perché ho ritenuto, in quel momento, che la precisione non fosse propizia. È vero che si può dire tutto con la massima precisione, però, questa non è sempre opportuna. A volte, anziché esprimere direttamente un concetto, è preferibile – secondo me – limitarsi ad un vago accenno, astraendo e ingentilendo. Perdipiù eravamo in un ambiente e in una situazione nella quale non c'era tempo per fare discorsi seri. Ma, se fosse stato possibile, gli avrei risposto così: «Personalmente rifiuto l'appellativo di ateo e non so perché qualcuno se lo attribuisce. Collocare qualcuno che regola i propri pensieri e la propria vita seguendo i percorsi dischiusi da quella definizione privativa che lo definisce "ateo" o "non credente", significa confermare la posizione di quanti ritengono che il modo giusto di essere uomini è quello di chi crede in Dio. In tal modo si continua a dare credito a quella antica (e impropria) tradizione medioevale e rinascimentale che identificava l'"uomo" con il "cristiano" dando così la stura non solo alla intolleranza, ma anche ai massacri di chi cristiano non era. Un esempio per tutti: l'impresa di Cristoforo Colombo in America. Ernesto Balducci ci ricorda infatti in La terra al tramonto, che «gli indigeni dell'America latina erano più di sette milioni all'arrivo di Colombo. Saranno appena quindicimilaseicento sedici anni dopo».
Cristoforo Colombo, nei giorni e nei mesi successivi il 14 ottobre 1492, così descriveva i Taino, gli indiani che allora vivevano nelle grandi Antille e nelle Bahamas: «È un popolo così affettuoso, così privo di avidità e così duttile, che al mondo non c'è gente o terra migliore di queste. Amano il prossimo come se stessi e hanno le voci più dolci e delicate del mondo e sono sempre sorridenti… Tutto quello che possiedono essi lo danno per qualsiasi cosa sia offerta loro… Non ho potuto sapere se possiedono beni privati, ma mi è sembrato di capire che tutti partecipano di ciò che uno di loro possiede… Il loro re e tutti gli altri vanno nudi come la loro madre li ha fatti».
Come è noto questa idilliaca visione degli indigeni americani non durò a lungo e nel giro di due generazioni i Taino furono annientati dai massacri e dallo sfruttamento degli Spagnoli e, soprattutto, dalle malattie che questi ultimi avevano portato dal Vecchio Mondo.

Scandalizzarsi per questo? Ma no, perché quegli atteggiamenti erano figli di quel tempo, nel quale la Chiesa si considerava depositaria della verità assoluta, la quale deve essere semplicemente trasmessa a quei "vasi vuoti" da riempire (Vasum receptionis, dice Paolo di Tarso) che sono le menti degli uomini. È il metodo che possiamo definire "catechistico", l'esatto opposto del metodo inaugurato da Socrate, il quale riteneva che la verità fosse presente in ogni uomo in modo confuso, distorto e approssimativo, e come tale bisognosa di essere ripulita dalle persuasioni personali e soggettive, in modo da proporsi solida, e fondata su consistenti argomentazioni oggettive. Inutile dire che il metodo socratico ritiene l'uomo depositario (anche se confuso) della verità e pertanto ha fiducia nello stesso. Verità che il metodo catechistico rifiuta, relegando la verità in un corpo dottrinale di cui solo il Magistero è depositario. La Chiesa pertanto non ha commesso errori figli del tempo, ma è (sempre) stata perfettamente coerente con la sua dottrina.

Ermanno Antonio Uccelli


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