Questo il dilemma. Le testimonianze dell’epoca rimaste a delineare la sua figura sono estremamente limitate e schiacciate dal sovrapporsi di leggende più o meno apocrife.
Dal 1860 in poi, all’interno del faticoso e contradditorio processo di costituzione di una classe dirigente nazionale italiana, il problema dei rapporti con le radici della storia patria si è intrecciato con quello del conflitto con la potente organizzazione politica e spirituale che nella stessa penisola ha le sue radici storiche: la Chiesa Cattolica Romana.
Ciò ha generato uno scontro, all’interno dell’élite che ha fatto l’Italia, fra coloro che seguirono le orme di un rinnovamento borghese, che aveva i suoi modelli ideali nella realtà francese e inglese, filtrate attraverso la rilettura fattane dal Cavour, e coloro che invece preferirono restare legati ai modelli della società tradizionale, vivendo le nuove realtà sociali e politiche come un inesorabile segno di decadenza e disordine. Questo conflitto si acuì poi dopo il 1870 con l’occupazione della città di Roma e il “non expedit” vaticano.
Da quel momento la difficile transizione dello stato risorgimentale verso la piena modernità si scontrò con una nuova e pesante resistenza. Per superarla, una parte della classe dirigente iniziò ad identificarsi con quelle figure “border line” che nella storia dell’Italia, medievale e moderna, avevano rappresentato, pur contradditoriamente, le voci dell’opposizione strisciante al compromesso fra potere politico e autorità religiosa caratteristico dell’Antico Regime assolutistico. In questa prospettiva Giordano Bruno piuttosto che Galileo Galilei, Tommaso Campanella piuttosto che Paolo Sarpi e lo stesso Arnaldo vennero letti come i campioni della laicità e del libero pensiero. Si trattò di un conflitto nazionale che si manifestò con forza anche a livello locale.
Nell’epoca che stiamo vivendo, caratterizzata dalla tendenza verso un pensiero unico, dove le contraddizioni e i conflitti fra fede e ragione finiscono per essere smussati se non sottaciuti, appare fin strano pensare che poco più che un secolo fa Brescia, non diversamente dall’Italia tutta, fosse dilaniata, al di là dei conflitti sociali e del lavoro, da non meno forti contrasti ideologici su figure come quella di Arnaldo.
Bene ha fatto il giornalista e rinomato storico locale Costanzo Gatta nel suo recente Arnaldo. Il monumento della discordia (Edizioni Arnaldo da Brescia, 2006, pag.471, € 25) ad offrirci una dettagliata e approfondita analisi delle vicende che si dipanarono intorno al monumento che orna ancora oggi la piazza dedicata al frate bresciano, educato alla scuola di quel grande ingegno filosofico che fu Abelardo.
L’autore non ha avuto certo la pretesa di compiere un’analisi erudita della figura di Arnaldo, che anzi rimane sullo sfondo, racchiusa nelle poche righe di una rapida biografia storica. È invece nel conflitto, sorto intorno al 1862, fra studiosi di cose patrie del mondo anticlericale ed esponenti del fronte avverso che l’autore ci introduce, guidandoci poi passo dopo passo, con acribia filologica basata sulla collazione di decine e decine di testi, verso un’analisi della costituzione della classe dirigente bresciana raccolta intorno alla figura di un leader come Giuseppe Zanardelli. È in questo contesto liberale e massonico, venato di forti tinte anticlericali, che nasce l’idea di utilizzare la figura del “martire” come strumento di legittimazione della rinascita della città in una cifra diversa da quella tradizionale, che vedeva Brescia fortemente legata alle strutture religiose della chiesa di Roma. Di qui la dedicazione del Liceo cittadino ad Arnaldo e soprattutto lo sforzo per la realizzazione di un monumento che doveva rappresentare la bandiera di una nuova società.
Come ci mostra il Gatta con dovizia di materiali e informazioni, i clericali non rimasero inattivi, anzi, dispiegarono una forte attività di “demistificazione” della figura di Arnaldo: la realizzazione di un monumento in suo onore pareva loro un vero schiaffo, insieme culturale, morale e politico, uno sperpero di denaro pubblico, inopportuno in una città afflitta da una serie infinita di problemi indotti dai processi di modernizzazione in atto, dall’igiene alla viabilità pubblica alla difesa dei ceti poveri.
Ciò nonostante dal 1870 in poi il progetto iniziò a mettersi in moto, sia dal punto di vista materiale che da quello artistico. Per la questione dei danari arrivarono sottoscrizioni individuali e persino di soggetti collettivi, quali città e associazioni culturali e politiche sia nazionali che internazionali. Dal punto di vista artistico venne, come di prassi, insediata una commissione, cui, saremmo portati a dire di nuovo, come di prassi, giunsero lettere di raccomandazioni che generarono le inevitabili polemiche giornalistiche.
Alla fine, come ci dice il Gatta, ancora una volta dopo una puntigliosa disamina, la commissione fu portata a scegliere il progetto del varesino Edoardo/Odoardo Tabacchi, classe 1804, artista fortunato, che nella produzione di una lunga serie di monumenti dedicati al Risorgimento e ai suoi “eroi” raggiunse la fama e la maturità artistica. Si tratta nel caso del Tabacchi di un furore produttivo che lo “perseguitò” fino alla fine della vita portandolo ad inondare piazze e giardini d’Italia di un centinaio di monumenti encomiastici di grandi dimensioni.
In questo quadro si iscrive la realizzazione del monumento ad Arnaldo, che venne portato a termine con italica lentezza, fra ravvedimenti e aggiustamenti estetico/politici, fino a essere messo in opera solo nel 1882 , mentre in un divampare di polemiche storico letterarie vennero scritti e distribuiti alla cittadinanza, l’uno dopo l’altro, una serie di saggi, più o meno fondati storicamente e sostenuti da spirito critico, ma in genere a tema, atti a dimostrare, di volta in volta, che il povero Arnaldo era la quint’essenza del male, in quanto eresiarca, oppure il martire della libertà.
Difficile non fu solo la realizzazione materiale dell’opera in bronzo, con lunghe rimeditazioni fra tre diversi modelli proposti dall’artista, ma anche la messa in posa, che vide esplodere ulteriori lunghe polemiche sul luogo in cui erigere il monumento fino alla definitiva opzione a favore di largo Torrelunga, ovvero in quella che poi diviene Piazza Arnaldo; aspre discussioni sorsero anche sulla modalità di posizionamento del manufatto, alcuni lo volevano con il volto e le braccia posti verso il centro della città, quasi a delimitarla in una ideale sintesi con Garibaldi, che si imponeva dalla parte opposta a ovest, altri invece lo volevano volto verso Sant’Eufemia, quasi ad accogliere coloro che provenivano da oriente. Il volume si sofferma con ricchezza di particolari sulla festa di inaugurazione del monumento, che venne realizzata, senza lesinare danari, con grande concorso di popolo e che vide gli esponenti del mondo risorgimentale uniti in un ideale abbraccio con la nascente borghesia urbana e il mondo del lavoro, cooperativo e socialista. Unico assente il mondo vicino alla Chiesa, che visse fino all’alba del nuovo secolo la presenza della grande statua come un esplicito segno di quella distanza che separava le due sponde del Tevere. Poi l’età giolittiana, il successivo Concordato e la pacificazione della età repubblicana hanno definitivamente posto in soffitta queste polemiche, lasciando al massimo aperta una discussione di natura estetica e storica, di cui il Gatta offre un importante elemento di conoscenza, mentre l’inquinamento urbano e la frenesia della vita di oggi hanno dato al monumento un abito vieppiù dimesso, quasi dimenticato, se non vi fosse stata di recente una lodevole opera di restauro conservativo e se l’Associazione, che ad Arnaldo si richiama, non avesse preso la lodevole iniziativa di far realizzare questo volume, che proprio per questa sua peculiarità si segnala all’opinione pubblica della nostra provincia.
Giulio Toffoli |