|
Forse era piaciuto loro il sapore, oppure erano stanche di essere manovrate, guidate, forzate, comandate da noi. Avevamo da millenni reso schiavi milioni di uomini, nello spirito e nel corpo.
In seguito era toccato alle macchine. Dapprima enormi, semplici, obbedienti. Poi, efficienti, compatte, dotate di sistemi di controllo assai sofisticati. Fino all’ultima generazione, macchine capaci di autoripararsi, e di autoriprodursi. Dotate di software sempre più complessi.
Il mondo operaio delle macchine non aveva aspettato un altro Marx. Si era mosso prima.
Il risultato l’avevo sotto il naso, l’odore dolciastro e ferruginoso del sangue che saliva lungo la collina, e sotto gli occhi, quando col binocolo guardavo il paese sottostante (Villa Carcina) devastato a morte. L’asfalto delle strade tappezzato di cadaveri a due dimensioni. “Murales” orizzontali, di un solo colore.
Difficile definire, misurare, il dolore. Superata una certa soglia, c’è quasi uno scorporo tra l’anima e il corpo. L’anima muore, ma il corpo, fiasca di un inconscio millenario, si morde a sangue, e accetta la sfida. Ero in località Zignone, a trecento metri in linea d’aria da quel cimitero all’aperto, e costringevo il mio cervello a cercare una soluzione.Le auto fuoristrada avevano già sfondato la prima barriera di tronchi, che avevo creato due giorni fa. C’era uno sfrigolio di radiatori rotti nell’aria, e un ronfare di motori che non prometteva nulla di buono. Da inutili idioti, dotammo le macchine di marchingegni ad infrarossi, e sensori termici, per schivare posti di blocco, o individuare guerriglieri nella foresta.
Ora è toccato a tutti assaggiare una fetta di quel “progresso”. Ma penso che non sia piaciuto.
L’anima del ferro, fusa martellata molata forgiata tagliata tornita segata fresata laminata curvata filettata saldata, si stava prendendo la sua rivincita.
Mi schiacciai un mozzicone sul palmo della mano sinistra, ancora convinto, che fosse solo un brutto sogno, figlio di molti libri e di troppo vino, ma la piaga risultò superflua e dolorosa. Feci un inventario di quello che avevo a disposizione.
Due scatole di fagioli, tre di fiammiferi, un salame, un chilo di pane raffermo, mezzo sacchetto di farina, due bottiglie di vino, circa centotrenta litri d’acqua potabile, trentadue libri, due mazzi di carte, 52 euro, diciotto pacchetti di sigarette, un sigaro cubano.
I nostri soldati, durante la prima guerra mondiale, avrebbero dato il braccio destro per tanto ben di Dio. Per me, era solo un problema in più. Restare, spostarmi, mangiare, morire, combattere?
Per chi? Per cosa? E poi, combattere come?
Pensai, a come avessimo operato affinché le macchine diventassero sempre più intelligenti, e quanto poco ci fossimo dati da fare affinché il genere umano tenesse il passo.
Freud ci aveva messo in guardia, scrivendo: “Un eroe è colui che combatte l’autorità paterna e la vince”. E chi era il padre in questa assurda guerra, se non noi?
Dire che dormii, è un eufemismo. Sentivo i cingoli delle ruspe lungo la collina, lungo gli avambracci, lungo le mie spalle. Dormivo come un gladiatore crocifisso al contrario. Non dormivo.
Più tardi, sonnecchiai (sognando d’essere sveglio) fino alle cinque del pomeriggio.
Cinquanta metri sotto la baita, schegge di tronchi volavano come schegge di granata. Non mi rimaneva molto tempo. La moto era la mia unica speranza, se non di sopravvivere, quantomeno di guadagnare tempo. Si accese al primo colpo. Lo zaino pesava come una promessa non mantenuta (una delle tante), e avevo chiuso la speranza dietro la porta della baita. Tagliai verso il canalone più vicino. Un’arteria d’acqua fortunatamente in secca, che scendeva dalla cima della montagna. C’era un branco di cinghiali da quelle parti. Tutti quei corpi caldi avrebbero disorientato seppur momentaneamente le macchine che mi davano la caccia.
Era un vecchio canale di scolo, pieno di sassi e alberi morti. Per me sarebbe stato abbastanza agevole da risalire, ma a “loro” avrebbe dato del filo da torcere.
Da cosa fuggivo? Non lo so. Non certo dalla morte. Avevo compiuto da poco cinquantasei anni, e pensavo che morire d’autunno o morire d’inverno, non facesse poi una gran differenza.
Era più l’istinto che il raziocinio, a spingermi verso la cima, cercando ingenuamente di far perdere le mie tracce. Man mano risalivo la forra, guidando dolcemente il mio mezzo, affrontando massi muschiati, e scavalcando tronchi di ogni dimensione, sentivo alle mie spalle schianti di rami e un franare di pietre, come se una ferita si richiudesse. Come se la Terra, da sempre nostra “Grande Madre”, stendesse le sue dita per difendermi. Ci misi due ore per arrivare sulla sommità, a quelle dannate macchine ne sarebbero occorse una decina. Da queste parti c’era la capanna di Sergio, (uno dei tanti amici andato troppo presto in Paradiso) e sicuramente la chiave era lì, sulla finestra (e vaffanculo Battisti). Aprii la porta, c’era un leggero sentore di fumo, di chiuso, di famigliare.
I clangori erano lontani. Trovai a tentoni la lampada a gas. Tutto, era come prima della sua dipartita. Capitava spesso durante le mie scorribande motoalpinistiche, che io arrivassi qui. Bagnato, infangato, intirizzito.
A volte affamato. C’era sempre il fuoco acceso, una fetta di polenta abbrustolita, formaggio, e uno o quattro bicchieri di vino. Come dessert, infinite conversazioni. Fino a che il buio ci assediava, e ci invitava a tornare a valle. Mi preparai un caffè parlando a voce alta invocando la sua presenza. Mi rispose un silenzio gelido e gravido di cattivi presagi. Avrei potuto attraversare un paio di montagne, fino ad arrivare a Navezze, circa mille metri sopra l’abitato di Zanano. Sulla montagna, che aveva visto i migliori anni della mia infanzia esplodere contro il sole. Ma ero stanco. Disorientato, e confuso.
Mi tornava alla mente la profezia di Ballard : “Gli uomini esistono solo affinché le macchine si possano perpetuare”. Nel cielo, che non si era ancora arreso alla sera, c’erano migliaia di lampi.
I satelliti, onnipresenti e onnivedenti, scagliavano i loro raggi di morte ovunque un essere umano fosse in movimento. Esorcizzai la stanchezza con due dita di grappa. Avevo deciso di fare il pieno e di dirigermi verso la sorgente del Pozzo Perlino, appena dietro la località “Paer”, sotto la cima di Navezze, spesso meta delle mie passeggiate da bambino. In un paio d’ore, anche se la notte si fosse fatta adulta, avrei potuto farcela.
Con la benzina avanzata, trovata nel capanno di caccia, segnai una linea di un centinaio di metri. Spostai a mano la moto verso Nord, e avvicinai un fiammifero acceso al combustibile.
La inforcai, e fuggii da quello che sarebbe diventato un inferno, ripercorrendo mentalmente il percorso prestabilito. Dovevo arrivare fino al Santuario delle Conche, scendere all’eremo di San Giorgio, imboccare la statale fino al Passo del Cavallo, e da lì, risalire fino al Casello.
La notte era illuminata dalla luna, e dalle saette dei nuovi dei.
Cercavo di accendere il fanale solo lo stretto necessario, per non essere individuato. Dopo un’ora arrivai alla Passata del Sonclino. Mandai mentalmente un saluto alla lapide di Giuseppe Gheda, comandante partigiano, e imboccai il sentiero stretto e tortuoso che scende verso i “Grassi”. Mi inerpicai poi verso l’alto. C’era un brutto scalino di roccia prima di arrivare a Sant’Emiliano. Accesi il faro, e diedi un colpo d’acceleratore che mi proiettò oltre la pietra. In un baleno arrivai al prato antistante il santuario.
Spensi la moto e mi accesi una sigaretta. Verso Sud, il monte Palosso sembrava un’enorme pira.
La sorgente del Pozzo Perlino era lì, a dieci minuti.Un tiro di schioppo.
Guardai giù, in direzione della Valle di Sarezzo. C’erano focolai d’incendio dappertutto. Tutte le luci erano spente. Non riuscivo neanche a piangere. Mi riavviai con un groppo in gola, ed un velo sugli occhi. Faticavo a tenere il manubrio, e un paio di volte la moto scivolò sul sentiero, umido della pioggia caduta la scorsa notte. Un ultimo tratto in discesa, ed ecco la sorgente. C’era il tronco appoggiato di traverso, come trent’anni fa, e la roccia, alta quattro metri, che faceva da sentinella al piccolo rivolo che gorgheggiava nella vetusta cassetta militare. Raccolsi delle pietre, le disposi in circolo. Con una bracciata di sterpi accesi il fuoco a ridosso della parete. Il tronco era un ottimo sedile. Aprii lo zaino, presi il pane, stappai la bottiglia di vino con una lunga vite arrugginita, annusai il salame, ne tagliai una fetta larga due dita. Chissà, forse sarebbe stata la mia ultima cena.
|