Storia e tradizione ( VERSIONE TESTUALE )A tal punto che un tempo, tra la folla di fedeli accorsi, si intrufolavano talvolta dei furfanti o malintenzionati, gente che approfittava della ressa per compiere ribalderie o peggio ancora. “Il 15 febbraio 1797, nella Piazza del Comune ove c’era grande moltitudine di popolo, arrivò da Cogozzo un uomo facinoroso e prepotente nonché armigero, che nelle osterie assaliva la gente; dopo mille espressioni micidiali fatte col coltello alla mano, tentò di uccidere un figlio di Francesco Paletto”.
Per impedire il ripetersi di simili episodi, la Deputazione comunale di Sarezzo (cioè la Giunta), in data 8 febbraio 1825, così scriveva al Commissario distrettuale di Gardone:
“Approssimandosi la Fiera di San Faustino che è solito farsi il 15 Febbraio di ogni anno in questo Comune, siccome in questa giornata concorre un’affluenza straordinaria di gente, si interessa la compiacenza di Lei, Sig. Commissario, a voler ordinare al Sig. Sergente comandante la Brigata dell’imperial Regia Gendarmeria, che si rechi sul luogo con la Brigata per mantenere il buon ordine”.
Il culto dei due martiri bresciani (San Faustino e San Giovita) si era diffuso in città fin dal IV secolo, allorché sul luogo del loro martirio (nei pressi dell’odierna Porta Cremona) venne edificata la chiesa di “San Faustino ad sanguinem” (ora S. Afra). Sembra che il culto dei due santi sia giunto in Valtrompia soltanto nella prima metà del IX secolo ad opera del Capitolo della Cattedrale e dei benedettini del monastero di San Faustino che in Valle contavano numerosi possedimenti fondiari.
Bisogna risalire a circa 1.200 anni fa – all’epoca carolingia – quando il vescovo di Brescia, Ramperto, (a. 821 – 844), nella zona nord-occidentale della città fece edificare il celebre monastero faustiniano.
In quegli anni le spoglie dei due santi furono traslate dal luogo della primitiva sepoltura nella nuova chiesa di S. Faustino annessa al monastero.
Successivamente in numerose località della nostra Valle, a Sarezzo, Pregno, Marmentino, Bovegno, Memmo, sorsero cappelle e chiese dedicate ai santi Faustino e Giovita tradizionalmente ritenuti originari della Valtrompia.
Nel Medioevo, in onore dei due santi, si celebravano in valle due feste: una il 15 febbraio, in data del loro martirio; una il 9 maggio, per commemorare la traslazione dei loro corpi alla chiesa di S. Faustino Maggiore.
Gli statuti di Bovegno e Cimmo, risalenti al sec. XIV, stabilivano che la festa patronale del 15 febbraio si doveva celebrare in ogni comune della valle. Lo statuto di Valtrompia del 1576, al cap. 31, prescriveva che la ricorrenza dei “Santi Patroni della Valle” fosse giorno di riposo: non potevano tenersi i Consigli comunali “Non si renda ragione, ma ogni giudizio si taccia”. Era vietato lavorare “con le persone e con gli animali, sotto pena di soldi dieci planeti”. Le “Provisioni della Spetabil Comunità di Sarezzo”, trascritte l’anno 1676, al cap. 88, stabilivano che “nella festa dei SS. Martiri Fausto et Giovita, Protettori e Tutelari di Sarezzo”, nessun abitante del comune poteva “recarsi alli Molini per macinar biave di sorte alcuna sotto pena di soldi, dieci planeti per ogni persona”.
I valligiani, contadini e boscaioli, trascorrevano i lunghi mesi invernali in un isolamento quasi assoluto, intenti, dall’alba al tramonto, a spaccare legna nel bosco o, nella stalla, a preparare gli attrezzi da lavoro, in attesa dell’arrivo della bella stagione. Pochissime erano le occasioni di incontro con persone e men che meno di svago oltre la cerchia del proprio paese. Ma a metà febbraio quando il sole cominciava a liberare dalla neve i disagevoli sentieri - “a S. Faüstì, al sul sö töcc i dusulì” - giungeva la tanto attesa solennità dei santi Faustino e Giovita che a Sarezzo durava più giorni e coinvolgeva gli abitanti dell’intera Valle. Le carreggiate cominciavano ad animarsi per il transito dei carri, animali e persone fin dalla vigilia. Giovani e adulti, smessi gli abiti della fatica quotidiana (“i vistìcc de ogni dé”), indossati quelli della festa, calzate le scarpe di cuoio (ma solo i più fortunati), sui carri o a piedi, si dirigevano verso la parrocchiale di Sarezzo. Lo spettacolo che si presentava loro era davvero insolito: la piazza del paese era invasa dalle bancarelle, i richiami dei venditori, il vociare della folla, gli schiamazzi dei ragazzi facevano un tutt’uno con gli odori ed i colori delle merci esposte.
La Messa “grande” della domenica era annunciata dallo scampanio festoso di tutte le campane della torre e dal sopraggiungere sul sagrato degli uomini del comune preceduti dal gonfalone. La navata della chiesa era gremita dai fedeli, e le autorità civili, militari e religiose prendevano posto negli scranni loro riservati nel presbiterio.
Terminata la lettura del Vangelo, il parroco dall’alto del pulpito teneva il “panegirico” in lode ed onore dei santi Patroni. Nel prosieguo della festa seguivano altre cerimonie fra cui il canto dei Vespri e l’esposizione delle Reliquie dei santi Faustino e Giovita, un prezioso dono offerto alla parrocchia dai
fratelli Giuseppe, Gaetano e Lodovico Redolfi di Zanano.
Ben presto la festa patronale assunse inevitabilmente anche il carattere di una grande sagra paesana nel segno del divertimento e della spensieratezza. Un giro fra le bancarelle era già un momento di piacere per l’olfatto e per la vista. Ecco l’immancabile zucchero filato, le ciambelle zuccherate, i confetti col rosolio ed il croccante alle nocciole.
Con pochi centesimi si poteva fare una scorpacciata di “patuna” o di “biline” cotte nell’acqua.
I ragazzi andavano matti per le “guaine”, la farina di biline e i “belegocc” che non erano altro che castagne cotte infilzate per farne collane.
L’attrazione principale per grandi e piccini era il “circo equestre” dove tre cavalli ed una ballerina eseguivano salti, corse e giravolte.
Altre singolari attrazioni erano i saltimbanchi, l’uomo mangiafuoco, la donna barbuta o quella senza testa detta “ramaiana”.
Tra le bancarelle e le giostre si aggirava l’uomo del “verticale”, il cantastorie al suono dell’organetto narrava il triste destino di ragazze tradite ed abbandonate dall’innamorato; il foglio con la patetica storia scritta in poesia si poteva acquistare per pochi centesimi. Ci si poteva imbattere nell’individuo che ti proponeva il gioco dei tre campanelli, croce e delizia di chi amava il gioco d’azzardo; sotto uno dei tre campanelli disposti sul tavolino era nascosta una pallina; si trattava di “puntare” con una banconota sul campanello sotto il quale si pensava ci fosse la pallina. Il gioco si concludeva quasi sempre con la perdita della “posta” da parte dell’incauto giocatore.
In omaggio alla tradizione secondo la quale S. Faustino dava alle ragazze l’opportunità di un incontro, la sera del lunedì crocchi di giovani si attardavano fino a notte inoltrata nella speranza di trovare il “moroso”. La festa poteva dirsi finita quando gli ultimi giocatori di “morra” lasciavano l’osteria e annusando l’aria dicevano: “San Faüstì, mercant de nef”.
(tratto dall’articolo di Roberto Simoni pubblicato sul quindicinale “Sarezzoinforma” n. 3/2002 del 5/2/2002 sito internet
www.comune.sarezzo.bs.it)
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