«Se una sera d’inverno…….» ( VERSIONE TESTUALE )(Perirono in quello scontro, una ventina di Partigiani della 122 Brigata Garibaldi sotto il fuoco di duemila tra Fascisti e Tedeschi). Se non vado errato, era l'inverno del 1968, uno degli inverni di una volta, carichi di neve. Non ricordo quale fantasmagorica scusa avessi inventato ad uso e consumo dei miei genitori, per avere l'opportunità di passare quattro o cinque giorni in solitudine. Li volevo trascorrere in una vecchia costruzione, praticamente una stanza di quattro metri per quattro, con il fuoco, un tavolo, e poco altro, di proprietà di un mio carissimo zio. Sapevo per certo che questo piccolo alloggio, sito in località "Navezze" a circa mille metri di altitudine, era stato usato dai Partigiani durante la Seconda Guerra mondiale, e che sulla sommità della montagna c'erano ancora i resti di una trincea e di una piccola piazzola, da dove le loro sentinelle potevano controllare le vie d'accesso alla montagna stessa. Un amico mi diede un passaggio fin quasi all'inizio del sentiero, cercando di dissuadermi dai miei "strani" propositi. La camminata non fu delle più agevoli, i venti centimetri di neve caduti la sera prima resero più ostico del previsto il mio procedere , e il peso dello zaino pareva aumentare ad ogni passo. Ci misi tutta la mattinata e oltre, per giungere alla meta, ma il tempo non era più padrone di quel giorno, che era, faticosamente ma unicamente mio. Arrivai in vista dell'eremo a pomeriggio inoltrato, maledicendo sottovoce l'esigua provvista di legna che intravedevo all'esterno della casupola. Sfruttai le poche ore di luce rimaste per tagliare e trasportare una discreta quantità di rami, una parte dei quali (segati alla giusta misura) appoggiai accanto al fuoco scoppiettante perché asciugassero velocemente. Passai la sera davanti al camino leggendo fino a tardi, il termometro all'esterno segnava meno otto. Nonostante la scatola di fagioli e la bottiglia di vino consumati per cena, quella prima notte dormii come una coppia di ghiri, rosicchiando sogni fino alle dieci del mattino. A quell'ora il sole era già alto ma i vetri delle due piccole finestre rimanevano ornati da ragnatele di ghiaccio. Mi lavai il viso strofinandolo con la neve, e rialzata la testa, la mia anima si allargò convogliando al suo interno l'immensa beatitudine del paesaggio, il suo silenzio bianco. Passai il resto del giorno bighellonando avvolto in una vecchia coperta militare, lanciando dei fragorosi "Hoka Hey" che strappavano manciate di cotone bagnato dai rami degli alberi. Il sole, stizzito dal mio apparente disinteresse s'allontanò sdegnato, lasciandomi solo con la mia lunga ombra. La distesa di neve luccicava come un lenzuolo di vetro polverizzato ai suoi ultimi raggi, e in pochi minuti, il buio di un cielo senza luna s'addensò come un budino di more. Fu in quel preciso istante che mi parve di udire delle voci.
Pensai fosse il vento, al vento piace soffiare tra le ultime foglie inventando rosari. Respinsi i freddi corteggiamenti della sera, ritirandomi nel grembo caldo della stanza, pensando che a volte si cerca la solitudine perché se ne ha paura. Ma sentivo dentro di me, che non era quella la risposta, c'era qualcosa di indefinito, un richiamo forte e misterioso, che mi aveva attirato lì, in quel luogo. All'interno il fuoco vecchio bardo raccontava storie e le fiamme con le loro guizzanti lingue, le regalavano al vento, mandando segnali di fumo dal camino. Aggiunsi una bracciata di legna, pregustando il sapore della bistecca che mi apprestavo a cucinare, quando mi parve di riudire il mormorio, fuori nel buio, le voci (ora le sentivo distintamente) avevano assunto un tono concitato. Penso che fu allora che molti dei miei capelli disertarono, mentre altri si misero sull'attenti, ritti, come pali del telefono. Una sottile lingua di nebbia usciva da sotto la porta di ferro accostata, e prendeva forma, o per meglio dire corpo, fino a coagularsi in una figura di giovane dagli occhi scuri e dai baffi di grafite. Lo invitai a sedere balbettando, con il cuore in tumulto e il cervello che vorticava alla ricerca spasmodica di una spiegazione. Quella apparizione, mi ricordava una foto che avevo visto anni fa, e che era tuttora ancorata ad una parete del "Buco" il vecchio rifugio dei Ribelli, poco lontano dalla stele del Sonclino. "Bruno" il partigiano, perché di lui si trattava, declinò l'invito sorridendo e mi porse un foglio di quaderno, giallognolo, macchiato, intravidi una poesia ed un indirizzo. Ero inebetito, le fiamme si accartocciarono, le braci si coprirono gli occhi di cenere, la figura svanì. Mi accasciai sulla sedia più vicina, e probabilmente passai dalla perdita di sensi al sonno cercando di esorcizzare il tutto. Mi risvegliai. Quando i primi raggi del sole trovarono il pertugio della porta semichiusa, il foglio che stringevo nella mano destra infranse il dubbio del sogno.
Cercai per anni la ragazza dell'indirizzo, senza fortuna, ma la poesia la conservo ancora, ha per titolo "La tela del tuo ricordo" e ogni volta che la rileggo, i miei pensieri tornano a quella sera, a quell'immagine stagliata contro l'uscio, a quell'eroe che aveva dato la vita per la nostra libertà, a quel ragazzo che non aveva chiesto nulla per sè, e come ogni volta fatico a trattenere le lacrime.
LA TELA DEL TUO RICORDO
Quando,
stanca di aggirarsi tra le case,
la notte, raccoglie le stelle,
e gelosa le ripone
nella piega più fonda
del suo mantello,
e i sogni
che l'alba giunta furtiva, impaurisce,
svaniscono,
il mio spirito si risveglia,
ed ad un suo cenno,
un muto popolo di maligni folletti,
tesse fino al tramonto
la tela del tuo ricordo.
Note dell’autore: Giuseppe Gheda, "Gnaro" di Campo Fiera, morì il 19 Aprile del ' 45 a diciannove anni , nel tentativo disperato di far tacere una mitragliatrice Tedesca, che vomitava piombo sul rifugio partigiano del Sonclino.
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