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AVAMPOSTA 46 |
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CORPI PERFETTI?
La nostra è un'epoca di persone magari imperfette, ma di corpi perfetti. Questo è certo. Corpi soprattutto femminili. Sono le donne-robot: donne prodotte dalla pubblicità, dalla fiction, dalla moda, dal consumismo, dall'incertezza del futuro. Che sanno d’avere, quando ce l'hanno, un solo tesoro: la giovinezza. E il liscio pancino ossessivamente esposto.
Perché oggi le donne ce le propongono nude e sottomesse, spaventate e con la testa piena di stupidaggini. Non si può che auspicare che siano tante le madri che sappiano proteggere le loro figlie da una simile deriva.
Crescono, sin da giovanissime, con in testa il sogno femminile più mercantile: diventare reginette. Televisive o meno, non importa. Purché possano trionfare da qualche parte. Con il corpo, naturalmente. Perché è lui il tramite del successo. E passano attraverso di lui, indifferentemente, maschi e femmine. Adulti e adolescenti.
La verità è che, dietro una vita condotta in quel modo, non ci sia niente; né vera gioia né vera sofferenza, né vera bontà né vera cattiveria, né moralità vera, né vera immoralità. L'essere di queste persone sta perlopiù nel loro apparire. È così per giovani e meno giovani. Questa è la loro futilità, questa mancanza di legami con la realtà della vita. E in primo luogo con le persone. Rispetto alle quali queste persone vivono una sorta di continua esitazione. Un’esitazione che viene loro, al solito, dalla mancanza d’intelligenza, dall’assenza di comprensione del valore dei rapporti. Dall’incapacità di colorare la loro vita di passione. Ed è qui, nel vuoto più vuoto della loro miseria del quale non hanno neppure intelligenza che si coglie il terribile sul niente che attraversa la vita di un mondo di molte, troppe persone del nostro tempo. Con la loro impossibilità di vivere in modo normale i rapporti tra i sessi. Persone obnubilate dal mito del lavoro con i suoi ritmi massacranti o dalla dialettica atroce tra essere e apparire.
Per noi che non siamo più giovani – meglio sarebbe dire che siamo anziani, anche se è troppo scoraggiante ma assai più realistico – l'argomento del corpo è antipatico. Il corpo, questo caro vecchio corpo che tentiamo in tutti i modi di esorcizzare. Dentro siamo ragazzi, fuori no: in passato si era vecchi prima dei cinquanta anni; quindi si aveva tutto il tempo di abituarsi alla situazione. Adesso la vecchiaia arriva di colpo, inaspettata, proprio mentre stiamo pensando a qualcosa di nuovo da fare con il corpo. O magari ad una donna interessante incontrata in casa d’amici.
Cosa si può fare? Accettarsi, dimenticarsi, chiudersi in convento, rifarsi da capo a piedi, buttarsi dalla finestra, fare i nonni, i bisnonni, o che altro? È una vera guerra, perduta in partenza: unica consolazione – magrissima – dirsi, intanto sono arrivato fin qui. Perché quel corpo che c’imprigiona, e che non vorremmo sentire nostro, è invece proprio il nostro, come la vita lo ha trasformato, un fardello da tenersi comunque stretto, dato che è quello che è, quello che c’è rimasto. Non ci (mi) resta che trattarlo amorevolmente e senza tenere gli occhi chiusi. E per il resto imparare a guardare oltre: smetterla di giudicarci con gli occhi degli altri.
Le venature azzurre delle mani e le macchie che le costellano fanno parte della nobile stanchezza delle nostre mani anche se a noi non sembrano nostre.
C'è un passaggio attraente e sublime nel libro "Lilac ad Flag" del giornalista John Berger – sceneggiatore, critico d'arte ma soprattutto scrittore – che la Bollati Boringhieri pubblicherà l'anno prossimo: «L'amore ha care le mani più d’ogni altra cosa. Altre parti sono forse più adorate, più baciate, più sognate, ma le mani sono care come nient'altro, per tutto ciò che hanno preso, fatto, dato, piantato, raccolto, nutrito, rubato, carezzato, sistemato, addormentato, offerto. Nell'ultima ora della sua vita saranno le mani di Zsuzsa che Sucus cercherà».
Percepire il nostro corpo come una buccia dura che se da un lato difende dal resto del mondo, dall'altro limita e avvilisce le nostre idee di volo, non è salutare perché non è vero: il nostro corpo è quello che è. E capire quest’assioma vuol dire che non ci sentiamo imprigionati in un corpo che non sentiamo nostro, ma in un corpo che accettiamo. E con il quale, magari cautamente, andiamo alla ricerca della mano di qualcuno da accarezzare. Cautamente, sì, certo, ma senza rinunciarci.
BIANCHI E PERFETTI?
Sarebbe negare le origini dell’Homo Sapiens. Sappiamo che gli uomini Sapiens sapiens, cioè la specie umana alla quale appartengono tutti gli uomini del pianeta, bianchi, neri o gialli che siano, fecero la loro comparsa circa 180 mila anni fa, in Africa orientale e cominciarono a migrare in Europa ed in Asia, 80 mila anni dopo. Il mutamento del colore della loro pelle nera, iniziò quindi 100 mila anni fa, dopo l’arrivo in Eurasia. Il progressivo cambiamento avvenne a causa dei raggi ultravioletti, indispensabili all’organismo per sintetizzare la vitamina D. Un individuo con la pelle scura, molto schermata dalla melanina, si troverebbe svantaggiato in regioni con scarsa insolazione.
Per questo, appena comparsa l’anomalia genetica che assicurava una pelle più chiara, gli individui con tale caratteristica si trovarono avvantaggiati nei nuovi territori e nel tempo l’evoluzione ne favorì l’affermazione. Presso le popolazioni rimaste in Africa, l’anomalia sarebbe risultata svantaggiosa e rimasero di carnagione scura.
Quanto sopra scritto vi aiuterà a capire meglio il senso del racconto che segue. Una delle più curiose short story del maestro Arthur C. Clarke, autore dell’indimenticabile “2001 odissea nello spazio”.
RIUNIONE
Gente della Terra, non abbiate paura. Veniamo in pace… noi siamo vostri cugini; siamo già stati qui. Ci riconoscerete quando c’incontreremo, fra poche ore. Stiamo avvicinandoci al sistema solare quasi velocemente come questa trasmissione radio. Già il vostro sole domina il cielo davanti a noi. È il sole che i nostri antenati e i vostri hanno condiviso dieci milioni d’anni fa. Noi siamo uomini come voi; ma voi avete dimenticato la vostra storia, mentre noi abbiamo ricordato la nostra.
Noi, abbiamo colonizzato la Terra, quando regnavano i grandi rettili, che stavano morendo quando noi arrivammo e che non riuscimmo a salvare. Il vostro era un mondo tropicale allora, e noi ritenemmo che sarebbe diventato una bella casa per la nostra gente. Ci sbagliavamo, benché fossimo signori dello spazio, sapevamo poco di clima, di genetica, d’evoluzione…
Per milioni d’estati – non c’erano inverni in quei tempi antichi – la colonia fiorì. Benché fosse isolata, in un universo dove il viaggio da una stella alla stella più vicina richiedeva anni, si mantenne in contatto con la sua civiltà madre. Tre o quattro volte ogni secolo le navi spaziali la visitavano e portavano notizie dalla galassia. Ma due milioni d’anni fa, la Terra cominciò a cambiare. Per epoche intere era stata un paradiso tropicale; poi la temperatura diminuì e i ghiacci incominciarono a scendere dai poli. Mentre cambiava il clima, cambiavano anche i coloni. Noi ci rendiamo conto ora che si trattava di un adattamento naturale alla fine di una lunga estate, ma quelli che avevano fatto della Terra la loro patria per molte generazioni, cedettero di essere stati vittime di una strana e repellente malattia. Una malattia che non uccideva, che non causava danni fisici, ma semplicemente sfigurava. Eppure alcuni erano immuni; il cambiamento risparmiò loro e i loro figli.
E così in poche migliaia d’anni la colonia si era divisa in due gruppi distinti – quasi due specie separate – ciascuna sospettosa e gelosa dell’altra. La divisione portò l’invidia, la discordia ed infine il conflitto. Mentre la colonia si disintegrava e il clima peggiorava sempre più, quelli che poterono abbandonarono la Terra. Il resto sprofondò nella barbarie.
Avremmo potuto mantenere il contatto, ma c’è tanto da fare in un universo di miliardi e miliardi di stelle. Fino a pochi anni fa non sapevamo che alcuni di voi erano sopravvissuti. Poi raccogliemmo i vostri segnali radio, imparammo le vostre semplici lingue e scoprimmo che avevate compiuto il lungo cammino fuori dalla barbarie. Veniamo per salutarvi, nostri parenti da tanto perduti, e per aiutarvi. Abbiamo scoperto molte cose nel corso degli anni, da quando abbiamo abbandonato la Terra. Se voi volete riportarla all’eterna estate com’era prima delle Ere Glaciali, noi possiamo farlo Soprattutto abbiamo un semplice rimedio per l’offensiva ma innocua pestilenza genetica che colpì tanti coloni. Forse si è esaurita da sé, ma in caso contrario abbiamo per voi buone notizie.
Genti della Terra, voi potete riunirvi alla società dell’universo senza vergogna, senza imbarazzo.
Se alcuni di voi sono ancora bianchi, possiamo guarirli.
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