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Lo squillo del telefono mi colpì improvvisamente, a sera inoltrata, mentre ero assorto nella lettura di un fosco racconto di fatti misteriosi.
“ Sei tu Giannino? Ti ricordi della tua maestra Luciana, delle scuole elementari? “.
Fui preso da un senso di smarrimento.
Non era possibile.
In un attimo, come accade nei momenti di estremo pericolo, feci un calcolo, ripercorrendo le tappe della mia vita.
Avevo più di sessant’anni; eran passati almeno cinquant’anni dai tempi della scuola elementare.
Come poteva questa voce presentarsi in modo tanto strano, dopo mezzo secolo di silenzio?
Probabilmente s’accorse del mio stato d’animo.
“ Sai, capisco che tu sia stupito. Sono vecchia e soffro la solitudine; così ho pensato di rintracciare i miei alunni di una volta, sfogliando le pagine della guida telefonica.
Tu sei il primo che chiamo, perché di te, come sai, ho conservato un ricordo particolare, da quando ti presentasti e mi chiedesti di poter frequentare ancora l’ultima classe, che avevi già superato brillantemente due volte”.
Non c’erano dubbi; era la mia maestra, quella maestra che mi aveva convinto ed aiutato a proseguire gli studi.
Adesso ricordavo: ero andato a trovarla una volta, al primo anno di scuola media, in un paesino di montagna, dove viveva con un fratello sacerdote.
Più tardi venni a sapere che il fratello era morto, che lei si era ritirata presso un’istituzione religiosa, dalle parti del lago di Garda.
Ora tutto s’era schiarito: se è vero che in quinta elementare avevo dodici anni, la maestrina che arrivava a scuola in bicicletta con i capelli al vento e le gonne svolazzanti, era una ridente ragazza non ancora ventenne.
A lei devo la mia laurea e quanto di buono ho operato come professore di Liceo. E poi come dirigente scolastico.
Eppure a volte mi viene un dubbio, un senso vago di rimpianto per quel piccolo mondo, giù nella bassa, che mi vide nascere e crescere fanciullo.
In casa eravamo otto fratelli (ancor oggi viventi) di cui cinque eran femmine e tre maschi.
Oltre ai genitori, c’era anche la nonna paterna ( morì novantenne negli anni cinquanta ) che camminava curva, sempre con la corona del rosario in mano ed il libretto nero delle “ massime eterne” e le “ preghiere della buona morte”.
Con i cugini (dieci fratelli) si lavoravano pochi terreni, che ci permettevano una vita dignitosa, anche se intrisa di fatiche e di sacrifici.
Anch’io sono stato agricoltore e ricordo con nostalgia i tempi delle semine a primavera, il fieno ed il grano che si falciavano nella calura estiva e l’uva ed il granoturco ed i canti nei vigneti ed attorno ai cumuli di pannocchie che si “ scartocciavano “ a mano.
Ma più ancora mi strugge il periodo dell’infanzia, e i giochi interminabili attorno all’aia, per i campi ondeggianti di messi e nei greti sabbiosi dei fossati.
All’approssimarsi della ricorrenza pasquale, ci si metteva a piedi scalzi e si correva per strade polverose a pulire le catene fuligginose del fuoco.
Per ogni catena si riceveva, come compenso, un uovo di gallina.
E come è possibile scordare il garrire delle rondini, quando tornavano ai nidi sotto il loggiato o sulle travi alte del tetto?.
Una coppia era entrata nella camera dove dormivo con i miei fratelli.
Per mesi la finestra rimase aperta, fino a quando i “ rondinini “ furono in grado di volare e di trovarsi un’altra dimora.
Due anni abbiamo avuto questi ospiti che il mattino ci svegliavano garruli e festosi al sorger del sole.
In paese eran quasi tutti contadini e la vita trascorreva sempre uguale e sempre nuova, scandita dal variare delle stagioni e dei riti religiosi.
Io ero chierichetto ( lo fui fino a quindici anni ), l’”accolito “ che nelle celebrazioni solenni reggeva il bastone d’argento.
C’eran turni nel servizio, per le celebrazioni del mattino, per i matrimoni ed i battesimi, quando si riceveva la ” mancia “ più consistente.
Ma più esaltanti erano le processioni solenni, le Rogazioni, il Corpus Domini, i riti di Natale e di Pasqua e le feste quinquennali della Madonna della Spiga; duravano una settimana: c’erano le giostre, le bancarelle, il trasporto dell’Immagine sacra, e il “ cannone “, là nel campo, che faceva sobbalzare con i suoi spari cadenzati.
In chiesa ho imparato il primo latino, il Miserere ed il Te Deum, il Dies irae ed il Libera me Domine.
Oh sì, c’erano anche i funerali, che seguivo con angoscia, soprattutto quando mi trovavo a regger verso il cimitero la bara bianca e minuscola di un bambino e le campane suonavano a festa.
Ero piccolo allora e mi spaventavo, le sere d’inverno, quando i vecchi raccontavano nelle stalle storie senza fine di spiriti e di morti che gemevano e gridavano nel buio della notte.
Come eran diverse le fiabe che ci leggeva la maestra!
In esse mi perdevo e spesso chiedevo un libro da portare a casa.
La scuola mi è sempre piaciuta, mi piaceva leggere e studiare e far gare di “ bravura “, segnate dalle bandierine che salivano sul monte disegnato su un grande tabellone, con tutti i nomi della classe.
C’era un ragazzo (ora è Monsignore in una parrocchia della provincia) che mi contendeva la vittoria.
Nell’ultimo anno giungemmo insieme alla vetta e da allora divenimmo amici.
Prima ho accennato ai tre anni di quinta elementare.
Non c’erano scuole, allora, nei dintorni, né mezzi di trasporto.
Così era quasi impossibile studiare, ad eccezione dei figli dei due “signori” del paese che potevano permettersi il collegio.
Allora, quando tornava l’autunno ed incominciavano i primi freddi, io chiedevo di essere accolto in classe, anche se già avevo la “pagella” di quinta elementare.
Avevo buoni voti e per due anni fui tra i primi della classe.
Al terzo la maestra Luciana mi “costrinse” a sostenere gli “esami di ammissione“ e ad iscrivermi alla scuola media.
Cominciò allora il mio viaggio in bicicletta (cinquanta chilometri al giorno) tra casa e scuola, tre anni presso la media “Ugo Foscolo” e cinque presso il Liceo classico “Arnaldo" di Brescia.
Giovane vita così lontana; non so, non so perché ti rimpiango.
Già più non torno ad ascoltare le allodole alte nel cielo, a tender trappole ai passeri nelle sere fiorite di maggio, a cercare d’autunno le famiglie di chiodini tra le foglie delle piante presso i ruscelli.
Ora penso alle rondini che volano a stormo e si raccolgono sul campanile per tornare tra poco nei paesi del sole.
Ma quando sarà primavera, non mancherò di venire a cogliere i primi bucaneve, per farne dono alla moglie che ogni anno li aspetta.
Lo so che non dovrei farlo, ma sento che lo devo.
Ne portavo sempre un mazzo enorme e fragrante alla mia maestra che mi ricambiava commossa con un sorriso.
Gianandrea Colombini
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