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 Nr.17 del 09/07/2007
 
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AVAMPOSTO 46
Rubrica a cura di Jo Dallera

''LE RAGAZZE CHE SEGUIVAMO''


“Le ragazze che seguivamo” è il titolo di una delle innumerevoli poesie di Charles Bukowski.
Un Bukowski stanco delle guerre quotidiane, della politica, delle chiacchiere. Stanco di tutto, ma non del ricordo delle ragazze che ha frequentato, con cui ha condiviso buona parte della sua vita
di anarchico, di poeta, di finto o vero alcolizzato, di uomo disperato davanti al destino ineluttabile dell’uomo. A settant’anni Bukowski tira le somme del suo esistere, e capisce che le cose più preziose che gli sono rimaste, sono i volti, le storie d’amore, i nomi, i sorrisi …de “Le ragazze che seguivamo”.
Mi è capitato proprio in questi giorni di rileggere alcune delle lettere ricevute (la maggior parte le avevo bruciate) da “Le ragazze che seguivamo”, ed alla fine d’ogni lettera chiudevo gli occhi e ripercorrevo con la mente quelle strane alchimie che alteravano il battito cardiaco e ti riempivano di sogni. Ogni lettera si dilatava fino a divenire un lungo racconto, e mi rivedevo a diciassette anni con la bicicletta da donna di mia madre, percorrere trenta o quaranta chilometri (di cui magari dieci in salita) solo per dire ad una ragazza che lavorava in un circo: “Ciao, come stai?” O divorare chilometri di silenzio in circolo come un ubriaco, fino a che una lei appariva correndo chiamando il tuo nome, abbracciandoti, e tu pensavi che quello sarebbe stato un bel giorno per morire.
La gioventù è una miniera che si esaurisce velocemente. Abbiate l’arguzia e l’intelligenza di mettere in banca almeno i ricordi. Niente riscalda il cuore dei vecchi come le immagini riesumate delle proprie giovanili primavere. E sono sicuro, che se pur rinchiuso in qualche ospizio, dopo le furibonde corse notturne in carrozzella con gli amici, e il copioso lancio di pannoloni usati, per lapidare “La Magra”, come viene chiamata la Morte in alcuni paesi della Valtrompia, mentiremo come cardinali pedofili (pur sapendo che a noi non andrà così bene) e ci ritroveremo rinchiusi in qualche C.P.R., Cappella Per Rigore, in beata solitudine, a parlare de “Le ragazze che seguivamo”. Nella cappella prigione, toglieremo i chiodi al Cristo, e lo staccheremo dalla croce. Nel doppio fondo della mia carrozzella truccata, ci saranno, pane, vino e salame anche per Lui.
Lui starà zitto per un po’, mentre noi accenderemo un grande falò col legno dell’albero stilizzato intriso del suo sangue. Ognuno di noi racconterà le proprie storie di donne davanti a quel fuoco, ognuno di noi userà la migliore dialettica per sostenere che il suo amore era il più grande. Ne usciremo sconfitti, perché io so cosa dirà Lui: “Voler bene ad una persona, è volere la sua felicità, dunque dovrete amare una donna anche se ella sarà felice con qualcun altro”. Nessuno avrà il coraggio di menzionare la Maddalena, dovremo berci le nostre lacrime in silenzio, scotendo fino alle radici il tronco del nostro ateismo.




LE RAGAZZE CHE SEGUIVAMO

Le ragazze che un tempo seguivamo
fino a casa, adesso fanno le barbone,
o una di loro è quella megera
con i capelli bianchi che ti ha picchiato
con il bastone da passeggio.
Quelle ragazze che seguivamo
si accomodano sulle padelle
nelle case di riposo,
giocano a piastrelle nel parco pubblico.
Non si tuffano più nelle onde
bordate di schiuma.
Quelle ragazze che seguivamo,
non si ungono più il corpo d’olio
sotto il sole,
non si agghindano più
davanti allo specchio.
Quelle ragazze che seguivamo,
quelle ragazze che seguivamo,
sono andate per qualche chissadove,
in un qualche persempre.
E noi, quelli che le seguivano?
Morti in guerra, morti d’infarto,
morti di desiderio,
passo impastato e lenti di parola.
I nostri sogni sono sogni TV,
e alcuni di noi, ma pochi,
pochi di noi ricordano
le ragazze che seguivamo fino a casa,
quando il sole sembrava brillare sempre,
quando la vita si muoveva nuova
e strana, e meravigliosa
in vestiti colorati.

Io mi ricordo
.


Charles Bukowski






GLI OGGETTI EVOCATIVI


Sì, davvero: la nostra, pare proprio essere un'epoca di grandi cambiamenti. Nella quale le molte appartenenze che ci connotavano – territoriali, culturali, ideologiche, famigliari, religiose e sessuali – si sono indebolite. Con ciò mettendo in crisi la nostra identità. Un forte contributo a questa situazione viene anche dal Web e da altre tecnologie. Siamo sedotti dagli oggetti che ci circondano. I quali stanno cambiando il nostro modo di pensare. C'è una psichiatra del MIT (Massachusset Institute Tecnology) di Boston, Sherry Turkle, che da oltre 20 anni studia l'impatto delle nuove tecnologie sulla nostra psiche. Ha appena pubblicato il terzo libro di una trilogia sull'argomento. Un quarto libro uscirà il prossimo settembre.
Dice Turkle che i giovani, ai tempi di Internet, si abituano ad avere personalità multiple. Che gli stessi hanno perso il senso della privacy. E sono più abituati alle chiacchiere che al pensiero profondo.
Naturalmente i rischi di questo stato di cose sono molteplici. Perché se ci si abitua a pensare che la propria identità è mutevole, allora si comincia a vedere la molteplicità di Internet come una verità. E non come una menzogna.
Se si è diversi davanti a differenti ascoltatori, è assai facile che non si riesca più a vedere sé stessi come uno, ma come molti. E se ogni cosa diventa accidentale e accessoria e dipende dall'eventuale contesto, questo cambia il concetto stesso di autenticità delle persone.
A ben guardare, non è che ci siano stati cambiamenti profondi nella psiche umana negli ultimi 150 anni. Oggi, tuttavia, c'è un nuovo medium che potenzia certe caratteristiche: Internet. È questo mezzo di comunicazione di massa che consente di dare sfogo ad aspetti della personalità che, ad esempio, nella vecchia società borghese, non potevano trovare capacità espressiva. Si pensi alla grande sofferenza che produceva il simulare una esistenza condotta con un "io unificato" quando in realtà, di nascosto, si trovavano modi erotici, spesso perversi, di esprimere la propria esistenza. Come dire che ci si illudeva di essere integri quando invece si era frantumati in molte, troppe, istanze.
È pur anche vero che, oggi, l'essere autentici è visto come un terreno minato. Incline a contestazione. Come lo era il sesso nell'èra vittoriana. Siamo circondati dalla cultura della simulazione. Attraverso la quale non ci interessa più sapere se i personaggi con cui stiamo giocando nei computer games sono vivi o meno. Per noi è come se lo fossero. Mentre invece sarebbe importante avere delle persone vive intorno a noi. Questa sarebbe autenticità. Ma (forse) il concetto di autenticità è entrato in crisi. O almeno così sembra a me. Come la privacy, del resto. Rispetto alla quale dice la psichiatra Turkle che «da 15 anni a questa parte la percezione della privacy è completamente cambiata. Si tratta di una svolta generazionale che io considero pericolosa e inquietante. I giovani non si preoccupano delle intrusioni nella loro privacy. Pensano che, non avendo nulla da nascondere, non ci si debba preoccupare perché, al tempo di Internet, l'informazione deve essere libera. Io credo invece – prosegue la psichiatra – che la privacy sia indispensabile per proteggere la libertà individuale. Rinunciarci non è una necessità tecnologica, ma pigrizia politica».
Anche perché, a ben vedere, questo atteggiamento verso la mancanza di privacy ha cambiato, fra i giovani, il senso del pudore.
Si è sempre saputo che quel profondo (e amaro) turbamento interiore che ci assale, quando ci rendiamo conto di aver agito (o parlato) in maniera riprovevole, chiamato vergogna, lo si prova quando una cosa privata diventa pubblica. Adesso, invece, sono due cose che viaggiano di pari passo: più cala il senso della privacy, meno si prova vergogna. Non c'è dubbio che la reality tv sia stata la causa principale di questo cambiamento. Essere visti qui è infatti percepito come convalida del proprio io (perlopiù ipertrofico), e non come violazione dello spazio personale. E questo, inutile nasconderlo, dipende anche dalla cultura dei cellulari. Con i quali ognuno comunica in modo puntuale, sistematico, costante e superficiale non solo la propria posizione, ma anche i pensieri e i sentimenti. Insomma, per dirla tutta, questi tecnologici oggetti evocativi ci presentano alla mente gli aspetti tristi delle nostre relazioni umane.

Ermanno Antonio Uccelli


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