Una notte niente male ( VERSIONE TESTUALE )Abituati a scarpinare e autostoppare da Brescia a Zanano, per recarci alla baita di un mio carissimo zio, poeta e pensatore, sita in località Navezze, a circa mille metri d’altitudine, accogliemmo la buona novella con grida di gioia. Il primo problema si presentò alla conta: eravamo in sette e, nonostante nessuno di noi fosse in sovrappeso, più di cinque il maggiolino Volswagen non ne poteva ospitare, stante i sacchi a pelo, gli zaini etc. Sesar brown, (Bruno Cesareni) residente a Brescia, ed io, Jo “l’indiano”, ci offrimmo, lui di fare autostop, ed io eventualmente, dopo aver preso vino e provviste da dove dimoravo, a Villa Carcina, di incamminarmi a piedi fino alle panchine di fronte alla vecchia chiesa di Zanano. Ebbi la fortuna di essere caricato in macchina da due tizi di Lumezzane, che, ubriachi come quattro somari, non si avvidero di aver superato il bivio per San Sebastiano, ed io, furbescamente, non li avvisai, se non appena superato il comune di Sarezzo. L’appuntamento con il gruppo dei magnifici sette, era per le ventidue, l’orologio del campanile segnava le ventuno e trenta, questo anticipo mi diede l’opportunità di recarmi all’antica forneria dei fratelli Lucchini, ubicata in una sorta di catacomba, per procurarmi un paio di chili di pane e una decina di focacce con le ”grepole”. Mi recai quindi da mio zio, il “Bepe dell’Enel”, il quale, dopo avermi consegnato le chiavi della casina, mi avvisò che la strada era innevata da uno strato di dieci centimetri di neve farinosa e, che era impensabile decidere di andarci in macchina. Gli confessai, che non era un mio problema e, che avevo già messo in guardia Claude Monet (Claudio Rinaldi), il pittore-imbianchino, nonché guidator cortese, delle difficoltà dell’ascesa. Per me e Sesar Brown, avevo scelto un’alternativa; il vecchio Morini 175 Corsaro che mio padre usava per andare a caccia in località “Foradur”. Una moto nata per la strada, che il mitico meccanico Faustino Bonera, aveva adattato al transito montano. Il mitico “Bonny”, che mai si era arreso davanti ad un mezzo a due ruote. Inforcammo il mezzo, precedendo gli astuti. Il nostro carico consisteva in dodici bottiglie di frizzantino bianco, i due chili di pane più le focacce e, tre salami, distribuiti in due zaini, quello con il vino lo tenevo sul davanti per appoggiarlo al serbatoio, quello più leggero gravava sulle spalle di Sesar Brown. La moto arrancava e soprattutto serpeggiava come un “bis batuner”. Facemmo una pausa a circa metà strada, nei dintorni del “Casì del mio”. Ci volgemmo verso la valle accorgendoci che all’inizio della strada cementata vi era uno strano bagliore. Abbandonai l’amico e i due zaini nella radura e ritornai con il Morini verso sud. Quando arrivai in prossimità del maggiolino, mi trovai davanti a cinque personaggi, non in cerca d’autore, bensì bisognosi d’aiuto e leggermente disperati. L’auto era di traverso sulla strada e, la lampada, accesa per trovare la soluzione, era stata gettata sul bordo della stessa e, soffiava fiamme come un drago incavolato. La spensi io con una manciata di neve e ripartii lasciando i furbastri nella condizione di muoversi a piedi. Aschi il Rosso (Mino Redaschi), cambusiere ufficiale della congrega, era l’unico ad avere lo zaino, pesante ma comodo, al cui interno custodiva fette di gorgonzola, polenta fredda, una collana di salamine e, due scatole di fagioli, gli altri, poco intelligentemente, erano dotati di ingombranti buste di plastica, il cui contenuto venne descritto dal “Bepe dell’Enel” il giorno dopo. Erano disseminate come le molliche di Pollicino lungo i tre quarti del percorso. L’unico alimento che arrivò alla meta fu una confezione di budino al cioccolato. Il vecchio Morini esalò l’ultimo scoppio-respiro all’altezza della località “Passata”, feudo da anni della famiglia Lucchini. Non era stato il suo piccolo e stanco pistone a cedere, e neanche le sue esauste valvole, o il carburatore ammantato di brina, più semplicemente era finita la benzina. Non ci perdemmo d’animo, fortunatamente, seguendo i consigli del nonno “Tone de Barc”, avevo con me una scatola di fiammiferi antivento e, sotto la giacca un’intera copia del giornale “L’Unita”.
In quegli anni non esistevano né il pay né il goretex e, se volevi proteggerti dal freddo quando cavalcavi una moto i giornali erano l’unica ed economica soluzione. Venti metri a sud-est del piccolo spiazzo dove avevamo posteggiato il mezzo, c’era una baracca abbandonata al cui esterno, sotto una tettoia sbilenca, era accatastata una discreta quantità di legname. Liberammo dalla neve circa un metro di diametro di terreno, vi collocammo sette o otto grossi ciocchi umidi, vi appallottolammo sopra i fogli di giornale e una fascina di legna “minuta”. Accendemmo il tutto, coscienti che l’attesa non sarebbe stata breve e, che i ragazzi sarebbero arrivati stanchi e intirizziti. Dopo otto sigarette, usate da me come segna tempo, ecco presentarsi all’appuntamento Aschi Il Rosso, che trascinava lo zaino attaccato ad una corda come fosse un morto cinghiale di ottanta chili. Dietro di lui Ruggio (Ruggero Baroni), con l’inseparabile chitarra, un sacco a pelo e, purtroppo niente altro. Di lì a cinque minuti arrivarono: Claude Monet sempre sorridente con l’immancabile Gauloise tra le labbra, seguito da un Gian inebetito. Il giovane Gian, con una faccia che pareva dire”… che cazzo ci faccio qui”? E da un Mario bestemmiante come non mai. Fortunatamente l’anima del vino cantava nelle bottiglie e nessuno faceva caso alle ombre inquietanti che le saettanti lingue del fuoco disegnavano sul tappeto nevoso. Il calore del fuoco, la consolazione paradisiaca dei sorsi di vino, il desiderio della baita e della cena che ci aspettava, parve attenuare la fatica del cammino. Ma, c’era un ma, eravamo solo a tre quarti del percorso ed il pensiero di abbandonare il fuoco creava un palpabile disagio. Non c’era tempo da perdere, la temperatura stava scendendo e, una leggera nebbia avvolgeva la nuda vegetazione. Dovevamo scegliere tra tre possibili sentieri, scelsi io quello più breve, anche se fisicamente più impegnativo. L’ideale, dissi, è la linea retta, io mi avvierò con i due zaini nella direzione che vi ho indicato. Voi seguite le mie impronte, appena arrivato alla baita accenderò il fuoco che c’è all’esterno, le fiamme vi indicheranno la traiettoria migliore. Sesar Brown mi guardò con due occhi da cane abbandonato in autostrada. Aveva le ginocchia doloranti per aver sgambettato furiosamente aiutando il Morini nelle salite innevate, ma disse “ok, andiamo”. Man mano proseguivo verso il “Cappello di Navezze” lo strato di neve si alzava e la nebbia si infittiva. Arrivai alla casina dopo circa un’ora, con la lingua pendula come un cane da lepri e, i polmoni che a ogni respiro parevano riempirsi di aghi di ghiaccio. Dietro di me non s’intravedeva anima viva. Buttai furiosamente legna sul focolare esterno, da cui si levarono fiamme alte più di un metro. Aprii la porta della baita e mi affrettai ad accendere il fuoco e la lampada a gas. Alla stufa ci avrei pensato dopo. La notte ebbe pietà di noi, si alzò la nebbia e il cielo apparve limpido, puntellato di stelle e, con una luna piena talmente luminosa e bella, che se avessi avuto una scala abbastanza lunga l’avrei salita per andare a baciarla. Sentii delle urla di giubilo e, vidi arrivare alla spicciolata quasi tutti gli amici. Quasi tutti meno uno, mancava Ruggio. Lo trovai duecento metri più sotto, era abbracciato ad un albero di castagno e piangeva come un bambino. Dovetti schiaffeggiarlo e strapparlo a forza dal suo nuovo compagno. Ci ritrovammo ambesette attorno ad un fuoco mai così benedetto. C’era chi piangeva, chi rideva convulsamente, chi batteva i denti, chi batteva i piedi mezzo congelati. Da sotto il mobiletto del fornello a gas prelevai una pentola capiente, la portai fuori, tolsi i due topolini morti, la lavai ben bene con la neve, senza che nessuno si accorgesse di niente, vi versai una bottiglia di vino e un po’ di cannella e, preparai un vin brulè che avrebbe resuscitato un alpino morto. La notte era appena cominciata.
(1 - continua)
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