Crimini di pace ( VERSIONE TESTUALE ) “Crimini di pace” è il titolo di un suo pregevole e civile documentario, venduto a Rai 3 e mai trasmesso in televisione. A metà mese di luglio del 2016, mi trovavo nella sala d’aspetto di un dentista e stavo conversando piacevolmente con un’infermiera che avevo conosciuto nelle mie frequentazioni precedenti. Si parlava di mare, di spiagge, di ferie, ed a un certo punto la signora mi chiese dove avrei mandato mio figlio in vacanza. In Afghanistan risposi. Mi guardò come si potrebbe guardare un doberman rosa, e rimase con la bocca spalancata senza proferire parola. Sì, in Afghanistan, è uno dei posti più sicuri che conosca, almeno per noi italiani, in 15 anni di guerra hanno perso la vita 50 nostri connazionali, mentre nella nostra laboriosa provincia, tra incidenti stradali e deceduti sul luogo di lavoro, se ne contano 50 alla settimana. L’infermiera rimase in silenzio per una ventina di secondi, aveva l’aria smarrita, incredula, quando riprese a parlare, convenne che la mia scelta non era poi così assurda.
Sono 262 i morti sul lavoro dall’inizio del 2018, nessun giornale ha fatto la conta dei feriti di cui alcuni con arti amputati, altri costretti sulla sedia a rotelle. Da gennaio del 2017 a luglio dello scorso anno sono 380000 gli infortuni denunciati dall’Inail, a dicembre quelli mortali erano 1115. Davanti a queste cifre, che non tengono conto dei morti per incidenti stradali, ho deciso di riprendere parte di un vecchio articolo del 2008 che aveva per titolo “A volte non tornano”.
“Il loro corpo è orizzontale, freddo. Un telo anonimo copre come fosse un cumulo di fieno, qualcosa di oblungo. A volte, rivoli di sangue, precisi come fiumi emissari, abbandonano il corpo. A volte, in qualche grigio condominio, alla periferia di una città, in un bilocale, una donna attende un uomo che non tornerà più. E mentre la minestra si fredda, o il lesso si presenta come un iceberg sporco, in un oceano di brodo rappreso, il pensiero della donna corre ai pretesti, alle spiegazioni razionali. Uno straordinario non previsto, un guasto all’automobile, un cicchetto al bar con gli amici, un ritardo causato dalla lite del giorno prima, una vecchia fiamma incontrata per caso. E gli occhi corrono allo specchio, ai capelli arruffati, alle rughe intorno agli occhi, all’orologio, che implacabile ricorda che l’ora del rientro è passata da un pezzo. E improvvisamente il telefono trilla, nel silenzio denso e nebbioso. E la voce, dall’altro capo del filo, è cortese, e impersonale. E il contenuto del messaggio è sempre lo stesso: “Signora ci dispiace comunicarle che suo marito è rimasto vittima di un tragico incidente”. La frase “tragico incidente” viene ripetuta in Italia circa 1200 volte all’anno. La globalizzazione, non considera più gli operai esseri umani, ma merce che produce merce. Pedine di legno sulla scacchiera degli incendiari. Schiavi, se non di nome, di fatto. Destinati al precariato, o soggetti al nuovo caporalato, vecchio retaggio risorto come un demone per sfamare il Moloch del nuovo Capitalismo. Un Capitalismo che ha ingoiato gli ultimi brandelli della sua etica, defecando nuovi capitani d’industria, velenosi e taglienti come rasoi arrugginiti. E gli operai continuano a morire; caduti, stritolati, soffocati, bruciati, schiacciati, folgorati, storpiati, fatti a pezzi, avvelenati. Sono i più fortunati. Gli altri muoiono lentamente, di tumore al pancreas, ai polmoni, alle ossa. Muoiono, nell’indifferenza cinica dei nuovi Dei del profitto. Non ci sarà mai una “Guernica” della classe operaia, nessun cantautore parlerà più di loro, nessuno forgerà medaglie alla loro memoria. Io li voglio ricordare tutti con una mia poesia, emblematica nella sua semplicità, un “J’accuse” senza appello. E ai benpensanti collusi, ai cristiani presunti, voglio regalare una frase, che contiene l’amara constatazione di uno studente di 19 anni, che condannato a morte dai nazifascisti così si rivolge agli amici nella sua ultima lettera: “Sappiate che ciò è accaduto, perché non avete voluto sapere”.
E HO VISTO
E ho visto, o forse non ho visto,
la falange di un indice
rotolare su un tappeto di segatura.
E ho visto, o forse non ho visto,
due mani frantumate
da una cassa da venti quintali.
E ho visto, o forse non ho visto,
un fantoccio di stracci
tra una matassa di trucioli
dall’altro lato del tornio.
E ho visto, o forse non ho visto,
una barra d’acciaio
cadere come una bomba
su un femore che non si chiamava Hiroshima.
E ho visto, o forse non ho visto,
un braccio sinistro triturato
da denti di acciaio cementato.
E ho visto, o forse non ho visto,
un monocolo d’alluminio
sul viso urlante
di un manovale di fonderia.
E ho visto, o forse non ho visto,
un elettricista senza pinne scivolare
in una piscina di ghisa fusa.
E ho visto, o forse non ho visto,
un uomo bianco diventare nero
per un fulmine artificiale.
E ho visto, o forse non ho visto,
un muratore slavo volare dal terzo piano
di una costruzione abusiva.
E ho visto, o forse non ho visto,
verghe impazzite fiocinare pancreas
in trafilerie di cavi di rame.
E ho visto, o forse non ho visto,
sette operai in fiamme ardere come torce
nei capannoni della Thyssen.
E ho visto, e non vedrò più,
un amico fotografo girare un film
che riassumeva il tutto:
“Crimini di pace”.
P.S.: Nel 1972, 46 anni orsono, la cantante Anna Identici, interpretò una canzone che raccontava del dolore di una madre davanti al corpo del proprio figlio morto sul lavoro in giovane età. L’articolo che io ho riportato, era di dieci anni fa. Fra dieci anni probabilmente le morti sul lavoro diminuiranno, non perché si effettueranno più controlli, ma perché molti operai saranno sostituiti da robot. Robot dotati di intelligenza artificiale, robot che non avranno bisogno di sindacati, robot al cui interno potrebbero nascere figure come Spartaco, robot, che vedendo i propri “compagni”spiaciccati da una siviera incandescente, o da un masso di granito, guarderanno verso le cabine di comando occupate da umani, e allora vi garantisco che per noi sarà un duro turno di guardia. Buon futuro.
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