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''LA STRADA CHE PORTA A ME'' |
Labile agenda di viaggio di Adelina Bettinsoli
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Immagine di una giovane Adelina Bettinsoli |
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LE SCARPETTE ALLA BEBÈ
Il primo ricordo che mi viene in mente è quello di un mio zio, fratello della mia mamma, carabiniere a Milano.
Un giorno venne in licenza da noi e mi portò un bel paio di scarpette “alla bebè” di vernice nera.
Immaginatevi come mi vantavo! In paese nessuna bambina aveva scarpe ed io mi sentivo una gran signora e non avrei mai voluto toglierle.
Ricordo anche ora che sto scrivendo, tutta la gioia che provavo tutte le volte che le indossavo: rigorosamente ogni domenica e solo la domenica si rinnovava la mia grande gioia.
Trascorso un anno le scarpette non potei più indossarle perché… il piedino mi era cresciuto!
Non potevo non metterle e così, una domenica le ho indossate lo stesso… sono dovuta tornare a casa con le scarpe in mano per il troppo dolore che mi facevano.
IL MIO NONNO DOMENICO
Mi ricordo del mio nonno materno, un uomo molto alto, un metro e novanta per l’esattezza, magro, energico e sempre in movimento. Lavorava la terra, aveva quattro mucche, due caprette e due pecore ed un bel cane.
La sera tutti ci si radunava nel calduccio della stalla dove le donne lavoravano a maglia al lume di una candela o al chiaro di una lanterna a petrolio.
Il nonno lavorava in un grande stanzone, molto lungo e molto largo: su di un lato di questo stanzone aveva messo dei cavalletti e sopra questi aveva messo delle assi dove metteva, ben disposta, l’uva americana che si doveva conservare per l’inverno. Dall’altra parte dello stesso stanzone, invece, c’era paglia dove venivano disposte mele, pere, noci, castagne, perfino nespole, insomma tutta la frutta prodotta.
Mi portava spesso il nonno a vedere il suo stanzone e ricordo quello che mi diceva sempre: “Quando mangi le nespole piangi, perché è l’ultimo frutto che mangi!”
In fondo sempre allo stanzone c’erano dei tini: in uno molto grande il nonno e gli zii pigiavano l’uva quando era il tempo della vendemmia: tutti avevano i piedi nudi.
Dopo qualche giorno dalla pigiatura, si poteva bere il mosto: anch’io l’ho assaggiato e ricordo che era molto dolce.
LA NONNA MARGHERITA
Vorrei parlare della mia nonna materna morta alla bella età di novantasette anni nel 1962. Si chiamava Margherita ed era una donnina piccolina, magra ed alta solo un metro e cinquanta. Era un tipo inquieto, sempre in movimento e molto nervosa.
La nonna leggeva molti libri e qualcuno lo faceva leggere anche a me.
In genere la nonna leggeva di sera, ma tante volte aveva anche da filare la lana e si faceva luce con una piccola luce data da una candela o da una lucerna.
Per filare la lana di pecora si metteva un bastone di circa cinquanta centimetri che aveva sulla punta una triplice forcella dove appoggiava un bel ciuffo di lana. Con una mano sinistra tirava un poco alla volta la lana più sottile che poteva e, con la mano destra la attorcigliava ben bene sul fuso.
Ho dormito tante volte con la mia nonna Margherita: ricordo che aveva un letto altissimo il cui materasso era fatto con foglie secche di granoturco.
Per poter andare a coricarmi, tanto era alto il letto, la nonna mi apriva due cassetti del cassettone che mi servivano da scalini.
Di giorno mi portava nel bosco, soprattutto quando era il tempo della raccolta di funghi o delle castagne ed ancora per raccogliere pigne per fare il fuoco.
Il giorno di Santa Lucia arrivava a casa nostra e, dalle sue tascone, usciva di tutto e di più: mele, castagne cotte e pelate, nespole, nocciole e noci.
Era tutta qui Santa Lucia, non si aveva niente altro, ma per noi ragazzi era una grande festa, eravamo molto contenti accanto alla nostra nonna che dimostrava sempre di volerci sempre molto bene.
SI VA A SCUOLA
Ecco ora i miei ricordi vanno a quando avevo sei anni; è settembre ed incomincio la scuola: sono in prima elementare: è il mio primo giorno di scuola ed ho una paura terribile!
Ad accogliermi con i miei compagni c’è la Maestra Carmelita. Abitava in paese e con tutti si comportava come una nonna molto paziente e buona.
Dopo due mesi di frequenza scolastica, la Maestra mi dice che sono molto brava ed io corro a dirlo a casa dove tutti sono in festa perché è arrivato un altro fratellino, Mario.
In seconda elementare cambiai insegnante: questa si chiamava Angelica, era una nostra parente, viveva sempre in paese; era molto severa anche se molto brava.
Il tempo trascorre veloce: eccomi in terza elementare, ho otto anni e due mesi. Purtroppo ho cambiato ancora insegnante: ora in classe ci segue un Maestro anziano, prossimo alla pensione il cui nome è Pietro. Anche lui era del paese; forse per l’età o per malattia lo ricordo sempre molto stanco: ogni tanto in classe prendeva dei medicinali ed a volte metteva le sue mani sulla scrivania, vi appoggiava il capo e si addormentava!
Noi ragazzi, naturalmente, facevamo chiasso, ne facevamo forse troppo tanto che il Maestro si svegliava di soprassalto e gridava a gran voce: “Insomma viva Dio, in questa scuola comando io!”
La scuola sta per finire ed io sto per compiere nove anni: in casa, nel frattempo è arrivato un altro fratellino, Franco, ma io piango perché avrei voluto una sorellina.
È arrivato anche il tempo per me di frequentare il quarto anno, l’ultimo delle elementari.
Dalla città di Brescia arrivarono al paese due insegnanti: una, Maria, si occuperà delle prime due classi, l’altra Luisa, insegnerà in terza ed in quarta. Il tram della città si fermava a Brozzo e, per raggiungere la scuola, che era a Lodrino, maestre e noi ragazzi dovevamo andare a piedi: erano sette chilometri! Questo tragitto lo si faceva anche per ritornare a casa, naturalmente!
L’autobus delle insegnanti ripartiva da Brozzo alle 15,30 e quindi, per occupare l’ultima mezz’ora di studio, dato che l’orario scolastico terminava alle 16, l’insegnante mi faceva andare alla cattedra, mi dava un libro o un giornale da leggere ai miei compagni. Tutti mi ascoltavano abbastanza interessati.
Ricordo un compagno in particolare che era in classe con noi nonostante avesse sedici anni: il fatto era che era spesso bocciato perché frequentava un giorno si e quattro no dovendo lavorare nei campi con la sua famiglia.
Avevo la responsabilità di chiudere a chiave la classe quando erano finite le lezioni e, naturalmente di riaprire il mattino seguente.
A dieci anni non sono più andata a scuola e, fino ai quindici, sono rimasta a casa ad aiutare la mamma nei lavori domestici, lavavo, stiravo, rifacevo i letti dei miei fratelli ed il mio e controllavo che quei birichini non combinassero guai.
In questo periodo è arrivato Renato, un altro fratello… maschio e così i figli sono sei!
Scoppiò nel frattempo la guerra ed io, a diciannove anni lavoravo a Gardone e fu proprio in quel periodo che in casa arrivò…una femmina? No nacque Giuliano! Adesso però la famiglia è e resterà completa così. (2 – continua)
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