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 Nr.19 del 17/09/2007
 
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UN AMERICANO POCO AMERICANO: AMAVA I PERDENTI



   Charles Bukowski


Per gli amici era semplicemente Buk. Gli altri lo conoscevano come Chinaski, o Hank. Per tutti era Bukowski. Charles di nome. Nato nel 1920. In Germania. Dove il padre era un soldato americano che aveva conosciuto e sposato una tedesca. Quando aveva due anni, il padre tornò in California e là il giovane Charles trascorse tutta la sua infanzia.
Il padre era molto aggressivo e autoritario. Il suo strumento educativo preferito era la cinghia dei pantaloni. La madre era sottomessa e complice del tiranno: mai una volta che abbia preso le difese del figlio. Passò di qui l'educazione di Charles. Che ebbe, per libro di vita, la strada.
Dopo essersi diplomato e aver fatto molti lavori, a 35 anni comincia a scrivere poesie. Si sposa. Poi divorzia. Nei lavori successivi al divorzio, comincia ad emergere davvero qual è l'essenza della sua scrittura: in essa non c'è più posto per orpelli di alcun genere. Sembra insomma che Bukowski abbia scoperto il trucco letterario che consiste nell'essere sé stessi. Era stato un barbone, un sottoproletario, un beone; bene, lui certo non lo nascondeva.
Viaggiare non gli piaceva neanche un po'. Non aveva niente del cosmopolita, ma ha scritto alcuni dei migliori racconti e alcune delle migliori poesie mai scritte in inglese. L'unica lingua che egli conoscesse.

Provocatorio e anticonformista. Un autore cult. Un’autentica leggenda. Il più famoso scrittore underground, sotterraneo, in lingua inglese. L'uomo dai mille lavori, sfregiato dall'acne. Bevitore già a 13 anni. Un uomo che faceva scandalo. Un mito le cui opere, aspre e implacabili, rozze, genuine e allo stesso tempo briose e divertenti, hanno sùbito trovato «imitatori, emulatori, fan, e insieme detrattori». Ha scritto di lui Jim Christy che Buk è stato «Uno dei pochi autori ad avere una scrittura tanto potente da cambiare la vita a qualcuno». Una vera e propria forza della natura. Capace di scrivere undici poesie a notte.

Nelle sue opere descrive, con un linguaggio crudo e volgare, la vita degli emarginati nella società americana. Sono opere nelle quali si riflette il suo trasgressivo modo di vivere. Il poeta e scrittore americano Charles Bukowski ha vissuto la vita per dedicarsi alle sue tre divinità: alcol, donne e scrittura.
Per lui era fondamentale trovare un lavoro, un’occupazione che gli permettesse di aver un po' di soldi, una stanza per scrivere, qualcosa da bere. Era un uomo intelligente, avrebbe potuto fare molto di più, ma questa era la vita che aveva scelto. Aveva una voce molto femminile. E l'umorismo e la brutalità hanno contraddistinto la sua vita. Che è stata una commedia. Mai una tragedia.
Diceva sempre: «Il mondo è divertente», e non si autocommiserava mai. Molti avevano di lui una percezione sbagliata, perché era povero, drogato e alcolizzato. Fuori era una specie di barbone. Ma, dentro, era pulito. Un uomo che viveva nello squallore e nella povertà, ma aveva molta dignità. Così come noi camminiamo attraverso una stanza, lui camminava attraverso i muri. È stato capace di dare voce a quella moltitudine sterminata di lavoratori senza passione che affollano non solo gli Stati Uniti, ma ogni angolo di mondo. Sono quelli per i quali l'unica via di uscita è sedersi in un bar e ubriacarsi.
Bukowski stava spesso davanti al bancone di un bar in compagnia di un bicchiere e della brutta musica di un jukebox. Era senz'altro un modo per non pensare alle sofferenze della vita. Diceva: «La vita mi fa schifo».
In una società, quella americana, dove c'è come una sorta di fobia del fallimento, dove tutti spasimano per il successo, egli era diverso. Profondamente diverso. Certo, anche Bukowski voleva un pubblico che leggesse i suoi libri. E voleva anche il successo. Che è certo una gran cosa. Perché – diceva – le persone non hanno bisogno di amore, ma di successo. La differenza fra lui e gli altri, sta nel fatto che, nella ricerca della fama, egli non era ossessivo e spasmodico come la maggior parte dei suoi contemporanei. Proprio per questo è riuscito a descrivere l'altra faccia del «sogno americano». Con stile aggressivo e grottesco.

Un poeta, Harold Norse, nella sua autobiografia "Momoirs of a Bastard Angel", lo descrive così: «Buk era deforme: grosso, gobbo, con una faccia devastata, butterata, i denti guasti macchiati di nicotina, e occhi verdi pieni di dolore. I capelli, di un castano scialbo, sembravano appiccicati al cranio abnorme; i fianchi più larghi delle spalle, le mani piccole e mollicce, grottesche. Un trippone da birra gli ricascava sulla cintura. Portava una camicia bianca, calzoni con le borse, un vestito della misura sbagliata, sul genere di quelli che i detenuti ricevono al momento del rilascio. E lui sembrava uno di loro, spiantato completo».

Cominciò ad essere sempre più conosciuto. Erano gli anni Settanta. Nei quali diede inizio ad una serie di letture non solo nella zona ma anche in tutto il Paese. Incontri pubblici nei quali Bukowski scoprì che «metà del pubblico veniva per osannarlo, l'altra metà per fare casino».
Ogni anno uscivano suoi libri. Che producevano un vistoso effetto-bomba. Nei circoli letterari Bukowski era considerato un incubo. Meglio «il peggiore degli incubi, un sogno orribile che nessuno avrebbe mai pensato potesse diventare realtà». Al di là di questo àmbito, però, egli era ciò che la gente davvero voleva. Gli scrivevano da ogni parte del mondo. Lui rispondeva a tutti. Praticamente ovunque era ammirato e idolatrato. Come in Nuova Zelanda dove, del poeta, si sviluppò un autentico culto. Complice anche la casa editrice che curava le sue opere, il cui nome era tutto un programma: "Caveman Press", uomo delle caverne, troglodita. L'editore della quale, 25 anni dopo, riconosceva nell'opera di Bukowski un forte elemento religioso: «Al fondo di tutto il resto c'è compassione e onestà, una posizione davvero coraggiosa di fronte alle prove della vita».

Narcisista ed esibizionista, evitava con cura gli scrittori, gente noiosa come la vita che conduce e che spiega la «loro scrittura noiosa». Preferiva avere a che fare con la gente incontrata per caso, nei luoghi dove egli abitava o per strada.
Adorava l'adulazione e perciò non si faceva pregare per confermare quella che era la sua immagine corrente. Gli piaceva essere circondato da una schiera di cortigiane, donne e ragazze che lo coprivano di attenzioni, quasi a compensare il tanto tempo trascorso a condurre una vita solitaria.
Bukowski scriveva dozzine di libri. È uno dei tre soli scrittori della sua epoca che siano diventati "modelli di vita". Gli altri due sono Jack Kerouac e Hunter S. Thompson. Kerouac ha avuto l'influsso di aver spinto intere generazioni di individui "sulla strada" cosicché, per la prima volta, essi si riconoscevano negli altri e nei loro affanni. Thompson e Bukowski, all'opposto, spingevano la gente a trascorrere il tempo – e a passare la notte – bevendo e drogandosi. Più in generale i loro comportamenti erano considerati sconvenienti e inopportuni.

È pur vero però che, per scrivere così tanto come faceva Bukowski, bisogna lavorare duro. Non certo con il contagocce. Egli, che lavorava a pieno ritmo, produceva poesie e racconti in misura impressionante. Non è mai stato un maestro della prosa; anzi non gliene importava nulla del tutto. La sua prosa non si stacca mai da terra, non ha nulla di musicale. È sempre nuda, ridotta all'osso. Scriveva grandi racconti e poesie pieni di violenza. Ha prodotto moltissimo: 67 raccolte di poesia, 17 volumi di prosa, 12 audiovisivi, una decina di Miscellanee e antologie, 4 epistolari. Il suo capolavoro è Hollywood, Hollywood. Nel quale i suoi personaggi non si evolvono, non sono lì per rappresentare alcuna Grande Idea. Infatti Bukowski è unico. Come unico è il suo modo di guardare le cose che smaschera qualsiasi artificiosità. E anche qualsiasi presunzione. È per questo che Hollywood, Hollywood è il suo capolavoro: dove altrimenti si trova di meglio per smascherare la superbia e l'arroganza, il finto, il falso, l'affettato?
C'è, in questo romanzo, il marchio della grandezza. La grandezza che dà la misura di un uomo che, dalla fama, non era stato distrutto né trasformato, mentre invece la fama gli aveva infuso una grande tenerezza.
Circondato dai suoi gatti, bevendo vino o birra, sfornava composizioni: quindici, venti al colpo. Ma non erano poesie, perché queste richiedono rime, metro, metafore. «Negli ultimi tempi invece, le sue poesie erano poco più che annotazioni, righe spezzate quasi per forza». Scriveva del traffico e della morte. Di questa diceva come della vita: «La morte mi fa schifo».
Affetto da leucemia era in trattamento chemioterapico ed era grandemente debilitato. Indifferente al suo schifo, la Morte lo colse il 9 marzo del 1994. Per consegnarlo alla Storia. Sotto il nome, sulla pietra tombale, è incisa la filosofia di vita dello scrittore: «Non ci provare».


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