Il vino è divino! ( VERSIONE TESTUALE )L’incipit ve lo scrivo in italiano, anche se io preferisco il dialetto comasco, la lingua dei “lagheè”. “Mi son svegliato che c’era il temporale e mi chiamavano tutti in un coro generale. Corri Noè che ti chiama il Principale… oh santo cielo, è il Diluvio Universale! Chissà come mai gli è venuto in mente di farlo, il mondo era sporco (anche allora) e Lui voleva lavarlo…” In effetti si può leggere in un passo della Bibbia la traduzione che segue: “Allora Dio disse a Noè: Mi sono deciso, la fine di tutti i mortali è arrivata, poiché la Terra per causa loro è piena di violenza; ecco io li distruggerò insieme con la Terra. Fatti un’arca di legno resinoso, la spalmerai di bitume dentro e fuori. La farai a ripiani. Detto “Inter nos”, come abbia fatto Noè ha costruire una barca, secondo la Bibbia lunga 156 metri, larga 26, e alta 15, rimane un mistero, a meno che il buon Dio non ci abbia messo del suo. C’erano da caricare un’infinità di coppie di animali, puri e impuri e di varie stazze. I primi ad essere divisi furono l’elefante e la sua compagna, uno in una cella a destra della parte centrale dell’arca e una nella parte sinistra, per equilibrare il tutto. Le giraffe furono messe a prua, all’aperto, nonostante la pioggia battente. Non ci stavano nei vari ripiani della nave. Abituate ad un clima più che caldo, dopo il quindicesimo giorno, afflitte da raffreddori devastanti, saltarono dalla murata direttamente in mare, maledicendo Dio e tutta la sua stirpe. I barriti degli elefanti separati facevano tremare le assi dell’arca che rispondevano con preoccupanti scricchiolii. I leoni e le altre fiere avevano gli occhi iniettati di sangue e una bava alla bocca che non prometteva niente di buono. Con otto esseri umani a bordo, i tacchini, le galline, le anatre, le oche, ebbero una degna sepoltura negli stomaci di Noè, dei suoi figli, delle sue nuore, e di sua moglie. Poi toccò alle civette, le loro strida costringevano perfino i gorilla a toccarsi le parti basse. Le loro carni erano coriacee, ma il lavoro, per salvaguardare il buon umore del serraglio, andava fatto. Il diluvio durò quaranta giorni e quaranta notti, poi la colomba maschio ritornò all’arca con un ramoscello d’ulivo (la colomba femmina era finita arrosto) cercando pietà, e comunicando che la terra emersa era vicina. Giunto sulla cima del monte Ararat, Noè liberò velocemente la nave dagli animali, trasbordò la decina di piante di viti che aveva gelosamente custodito nella cambusa, le trapiantò in un fazzoletto di terreno morbido, e coccolandone i grappoli dorati, ne pregustò la vendemmia con l’acquolina in bocca. Dopo due giorni, armato di un capiente secchio di legno, raccolse una trentina di grappoli. Aveva chiamato invano i figli, affinché gli dessero una mano. Macché, i tre sconsiderati erano presi da strani giochi erotici con le rispettive mogli. Noè, incazzato come un mandrillo circonciso, prese a pugni il contenuto del secchio più e più volte, ma quando si leccò le nocche tutta la sua rabbia svanì. Ma, è divino questo succo! E riempì con lo stesso una grossa ciotola di legno, che aveva pazientemente intagliato durante i lunghi giorni passati sull’arca. La riempì una, due, tre, quattro volte. I figli lo trovarono che ballava completamente nudo, “ciucco” come un asburgico. Il resto è storia, o meglio Bibbia. Tutta questa tiritera è servita esclusivamente a introdurre due poesie dedicate al sangue di Cristo, una del mio compianto amico Mahem Pintossi, pensata e scritta in dialetto bresciano, da lui tradotta in lingua italiana per la comprensione di tutti i nostri conterranei, e una mia. Per stimolare l’umiltà degli scarsi poeti contemporanei, ho deciso di chiudere l’articolo con uno dei componimenti dedicati al vino dell’unico poeta “maudit” che io abbia mai amato: Charles Baudelaire.
LA CURA
Il giorno che suonerà forte l’ora giusta,
per dare una bella pulita alla gola,
non so se ascolterò il signor dottore,
che dice che con la scienza si risolve,
perché le ragnatele che mi pizzicano,
nell’apertura sotto il naso,
sono sature della polvere che intossica,
veleni della bella civiltà.
Ma per sciogliere questa amarezza
che a volte irrita anche i miei pensieri,
dovrò sciacquarmi con un bicchiere
e a far solletico alla mia gola,
dove l’acqua arrugginita non arriva,
voglio che nuoti solo la magia
che canta in fondo a un calice di vino rosso.
IL VINO
Scorreva come un fiume vermiglio,
il fiotto continuo e schiumoso
che usciva dalla bocca del tino,
mentre le mie gambe bambine
pestavano uva come stantuffi,
nel pomeriggio inoltrato
di un settembre incantato
che non tornerà più.
Nonno Antonio,
beveva mosto e futuro,
ridendo tra i baffi e il toscano,
pensando che in me suo nipote
c’era anche qualcosa di suo.
Ci perdemmo di vista per anni,
per molto tempo
io e il vino non ci demmo del tu.
Ma vent’anni più tardi,
mi prese alla spalle,
con garbo e senza alterigia,
sussurrandomi: “ Mi devi qualcosa,
per quei tuoi piedini arroganti.”
Mi arresi al ricatto
alzando entrambe le mani,
in ognuna un bicchiere di rosso,
se mai divenissi poeta, promisi,
scriverò una canzone per te.
L’ANIMA DEL VINO
Una sera, l’anima del vino cantava nelle bottiglie:
“Uomo, lancio a te, o caro diseredato, sotto la mia
prigione di vetro e le mie ceralacche vermiglie,
un canto pieno di luce e di fraternità!”
So quanta pena, quanto sudore e quanto sole ardente
occorrano, sulla collina in fiamme, per generare la mia vita
e per darmi un’anima ;
ma non sarò nè ingrato né malvagio,
giacché provo una gioia immensa
quando cado nella gola
di un uomo sfibrato dalle fatiche,
e il suo caloroso petto è una dolce tomba
dov’io sto meglio che nelle fredde cantine. |