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 Nr.21 del 08/10/2007
 
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IL MIRAGGIO DEL PROGRESSO E LE BALENE DI ACCIAIO



   Una delle balene di acciaio del lago d'Aral


La si è sempre considerata una risorsa naturale. Illimitata e gratuita. La sua originaria purezza è andata (di sicuro) perduta. Perché la si è sottoposta ad uno sfruttamento intensivo. E ad un inquinamento sconsiderato. Perdipiù, anziché riconoscerla come un diritto umano, si è finito per considerarla una merce. Parliamo dell'acqua, naturalmente. Fonte primaria per la sopravvivenza.
Sul pianeta si potrebbero prendere molte situazioni come esempi per spiegare (e comprendere) l'importanza (e la necessità) di un’oculata gestione delle risorse idriche. Ma, fra le tante, ve n'è una che, per la sua drammaticità, le racchiude tutte: il Mare d'Aral.
Con una superficie di 70 mila chilometri quadrati, questo mare era il quarto bacino d’acqua dolce più grande del mondo. Era formato dal delta dell'Amu Darya e da quello del Syr Darya.
Da una parte la cittadina uzbeka di Muynak: uno dei porti sulle coste di questo mare. Seconda solo ad Aral'sk, in Kazakhstan, sulla costa settentrionale. Due centri. Due flotte commerciali. Che, nel 1960, cioè meno di mezzo secolo fa, vantavano un pescato complessivo di 45 mila tonnellate l'anno. Per capire meglio, quasi il 20 per cento dell'attuale produzione ittica italiana.
Poi arrivò l'uomo con il suo miraggio: il progresso. E in quelle lande desolate dell'Asia centrale, il corso dei due fiumi fu deviato. Si voleva dare il "la" ad una produzione di cotone intensiva. Per la quale occorreva molta acqua. Fu così che l'Aral cominciò a morire. Piano piano. In poco più di quaranta anni la superficie del lago si è ridotta del 60 per cento. Il volume dell'80. Il livello del bacino si è abbassato di 16 metri. La salinità dell'acqua è quadruplicata. Poi, di colpo, l'Aral è diventato terra bruciata. Letteralmente. Ed è successo questo: l'economia di una intera regione si è dissolta. In un amen. Gli abitanti della zona hanno cominciato a soffrire di due croniche iatture: miseria e malattie. Ambedue dovute ad una permanente mancanza di acqua. A fronte della quale i possenti pescherecci di Muynak giacciono ora, spiaggiati, a cento chilometri dalla costa. Come balene di acciaio.

Ecco, la (terribile) tragedia del lago di Aral ci fa comprendere la davvero grande importanza di una attenta, intelligente ed oculata gestione delle risorse idriche. Si potrebbe pensare (sbagliando) che la vicenda del lago di Aral sia il frutto della follìa dei dirigenti sovietici abbagliati dal miraggio di un progresso senza limiti… Se così fosse, sarà allora più che mai opportuno guardare un atlante geografico per scoprire che il progresso, dio terribile e crudele, di queste situazioni ne ha in serbo parecchie.

In questo secolo XXI, l'acqua sarà la principale causa di conflitti in diverse aree del mondo. Lo dicono i rapporti delle Nazioni Unite. Il rapporto «Water for People, Water for Life», dice che già oggi almeno un miliardo e mezzo di persone non ha accesso all'acqua potabile. Tre miliardi non hanno servizi igienici. Ogni anno sono 1,7 milioni le vittime legate a malattie dovute a scarsità d’acqua. Sono 4740 morti. Al giorno.
Secondo il portavoce del «World Water Council» Loïc Gauchon, i morti ammonterebbero invece a ben 25 mila al giorno. È questa una rete di enti governativi e organizzazioni non governative che si occupa di politiche dell'acqua a livello mondiale. Ma la situazione è ben più grave se si pensa che, nel prossimo quarto di secolo, la popolazione mondiale aumenterà di altri due o tre miliardi di persone e che, già oggi, l'agricoltura è responsabile dei due terzi del consumo complessivo di acqua dolce. E, dulcis in fundo, entro il 2030 la domanda di acqua, per uso agricolo, aumenterà del 14%. Contemporaneamente, l'efficienza dei consumi migliorerà soltanto del 4%.

L'industria è responsabile del 22 per cento del prelievo. La globalizzazione delocalizza molte industrie. E crea uno sconsiderato aumento della domanda di acqua in aree che già non ne hanno a sufficienza. Così l'ambiente viene messo a dura prova da questa nuova rivoluzione industriale. E le aziende sembrano arretrate di due secoli. Non solo riguardo alle condizioni dei lavoratori. Ma anche rispetto all'ambiente. Come quando, ai tempi della rivoluzione industriale, si scaricavano gli scarti di produzione direttamente in mare. Oppure nei fiumi. Il motivo di tanta (stolta) incuria? La rincorsa del profitto, naturalmente. Cui vanno imputati veri e propri disastri ecologici. Come quello del fiume Songhua.
È nella Cina settentrionale. Nelle sue acque una azienda chimica ha riversato quantità spropositate di benzene. Risultato: un bacino di nove milioni di persone, in ginocchio. Conseguenza: occorreranno diversi anni prima che il fiume venga ri-aperto alla pesca. Un’attività che dà sostentamento a migliaia di famiglie nel tratto siberiano dello Songhua.

L'incremento demografico e i cambiamenti nello stile di vita. Due variabili che stanno, in modo inevitabile, creando situazioni di (palese) tensione in diverse parti del mondo.
In Africa, ad esempio. Le acque del lago Vittoria sono con-divise da diversi Paesi. Le sue risorse idriche sono sempre più sfruttate come fonte di approvvigionamento. Le usano milioni di piccoli agricoltori che si affacciano sulle sue sponde.
O il vasto bacino del Nilo. Condiviso (forse), conteso (certamente) tra Egitto, Etiopia e Sudan. Già sin dal 1991 Il Cairo avvertiva i suoi vicini: useremo la forza (se necessario) per proteggere l'accesso alle acque del grande fiume.
Oppure il contenzioso per l'acqua fra Siria, Iraq e Turchia. Questa ultima è accusata di aver costruito una serie di gigantesche dighe con le quali ha sbarrato – e praticamente interrotto – il flusso delle acque del Tigri e dell'Eufrate. Conseguenza: l'agricoltura di vaste regioni è (miseramente) crollata. A tutto vantaggio dell'Anatolia.
E in Asia, l'oggetto del conflitto, fra l'India e il Bangladesh, sono le acque del Gange. Ormai a lungo contese nella zona del delta. Un fiume che, al di là della situazione politica (che potrebbe anche volgere al meglio), è in una situazione ambientale drammatica: lo (spaventoso) sfruttamento del fiume sacro agli Hindu è arrivato al punto da costituire una cloaca a cielo aperto e una seria minaccia per le aree umide dei Sundarbans e per le loro foreste di mangrovie.
Per dirla tutta e in breve, l'acqua è diventata come il petrolio: un’ulteriore ragione di conflitto in aree critiche.

Ma l'approvvigionamento idrico, anche quando non è causa di conflitti, mette in pericolo la sopravvivenza di intere città. E di vaste aree. Città del Messico, ad esempio. Sta sprofondando. L'eccessivo sfruttamento delle falde sotterranee. La crescita sregolata della megalopoli che, con l'agglomerato urbano conta quasi venti milioni di abitanti, quindi tra i maggiori del mondo. L'assenza di adeguati sistemi di drenaggio delle acque piovane. Tutte queste situazioni stanno mettendo a dura prova le risorse idriche di buona parte della città. Ma, sia chiaro, il problema del liquido elemento non è limitato solo ai Paesi in via di sviluppo. Il 95 per cento dell'acqua dolce degli Stati Uniti proviene da falde sotterranee ed è ampiamente sfruttato per uso agricolo.

Negli Stati Uniti c'è una vasta falda acquifera. Meglio, la più vasta del Nord America: Ogallala. È estesa dal Texas al South Dakota. Ebbene, si sta svuotando ad un ritmo di 12 miliardi di metri cubi all'anno. Succede, per irrigare il 20 per cento delle piantagioni statunitensi.
Sul fronte urbano, invece, più della metà delle città europee sta già sfruttando le falde sotterranee a livelli insostenibili. L'amministrazione della Catalogna sta premendo perché si costruisca un canale che devìi le acque del Rodano dalla Francia sino a Barcellona. Città che sta pagando pegno per l'abuso che, sino ad ora, ha fatto dell'acqua.

Il mondo ormai non fa che pensare al mercato. Ha perso qualsiasi senso della società. Le agenzie internazionali sono ridotte al rango di istituti di statistica. A fronte di tutto ciò, la migliore risposta che si sia data, in questi anni, è stata una sempre più pesante pressione perché le risorse idriche vengano privatizzate. Complici – colpevoli e compiacenti – di questi "fattacci", la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
L'acqua è un diritto umano e non è commercializzabile. È vero che la crisi del liquido elemento colpisce in misura diversa le differenti regioni del pianeta. Non per questo però, chi oggi ne è escluso deve ritenersi al sicuro. La crisi è soprattutto politica. E, in molti casi, ha un impatto diretto e immediato sul benessere di milioni e milioni di persone. E sulla qualità della loro vita. La situazione generale peggiora di giorno in giorno. È pertanto necessario che, alla difesa dell'acqua, si dia l'attenzione e l'impegno indispensabile al suo riconoscimento come diritto umano.


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