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Si è trattato di un programma molto esteso e diversificato che, accanto alle famose grandi mostre, ha visto l’intervento dell’istituzione a sostegno di varie iniziative, fra cui hanno avuto particolare importanza, per la loro qualità culturale e per l’attenzione ottenuta presso l’opinione pubblica, una serie di conferenze e convegni. Si è sviluppato così un originale disegno di politica culturale che è possibile ricostruire analizzando i diversi titoli pubblicati dall’Assessorato alle Attività Culturali del Comune nella collana “Culture della città”, che ha ormai raggiunto e superato i venti volumi.
L’ultimo pubblicato è stato «Dalle storie alla Storia. La dittatura, la guerra, le privazioni, la paura nel vissuto delle donne e degli inermi» a cura di Bruna Franceschini, uscito per i tipi della Grafo (2007). Si tratta della raccolta degli atti dell’omonimo convegno tenuto a Brescia nel sessantesimo anniversario della liberazione.
«Dalle storie alla Storia» è uno spesso volume di quasi 500 pagine, che si fa apprezzare soprattutto per la messe di materiali che mette a disposizione della discussione e della meditazione dell’opinione pubblica; materiali costituiti per la maggior parte da testimonianze inedite di donne che hanno, nelle più varie condizioni, partecipato alla fase conclusiva della seconda guerra mondiale, nel momento in cui, sull’onda della sconfitta militare e del tramonto dei miti della dittatura fascista, emergevano i nodi di una scelta politico militare che poneva ciascun cittadino di fronte a inedite responsabilità: non si trattava più di una guerra combattuta su fronti lontani, ma di uno scontro che toccava nelle carni la vita individuale e quella di ogni comunità, creando impreviste contraddizioni e laceranti conflitti.
È questo il tema che il sindaco di Brescia Paolo Corsini, che non abbandona mai i suoi interessi di storico, ha sottolineato nella sua introduzione al volume. Il convegno ha, infatti, lavorato su tre linee di ricerca: il primo tema affrontato è stato quello della «guerra ai civili», seguito dall’indagine «su un intero Paese che viene attraversato dalla vicenda della guerra, in vista di una compiuta riflessione circa l’esatta collocazione...della Resistenza italiana entro la storia nazionale» per concludere con un’attenta analisi delle modalità di «partecipazione delle donne, nell’intento di ricostruire il ruolo svolto dal mondo femminile» nella difficile stagione della ultima fase della guerra. Infatti, come viene fatto notare ancora dal Corsini: «Con la Resistenza la partecipazione alle sorti del Paese si allargò a nuovi ceti, a plurime componenti, ad inedite sensibilità. Per la prima volta le donne assunsero un ruolo da protagoniste, nella diversità dei contributi che seppero e vollero dare».
È su questa lunghezza d’onda che si articola la decina di interventi che costituiscono una sorta di cornice alla parte più testimoniale del volume. Per la loro pregnanza ci permettiamo di segnalarli tutti, da quello di Bruna Franceschini su «Storia e narrazione», a quelli di Daniella Gagliani su «Una rilettura del ruolo del fascismo e di Mussolini nel 1943-45», di Maurizio Magri su «Bombardamenti alleati: la strategia e il coinvolgimento della popolazione civile», di Giorgio Vecchio e Elisabetta Salvini su «La violenza sulle donne, dal tabù storiografico alle nuove ricerche: l’Italia, 1943-45», di Dario Frezza su «Riti pubblici e memorie private a Cassino e lungo la linea Gustav», di Marino Ruzzenenti su «Donne nella tragedia della persecuzione antiebraica» e infine di Rolando Anni su «La silenziosa resistenza delle parrocchie».
Questa semplice enumerazione basta a suggerire lo spettro delle tematiche e l’interesse insito nei diversi fronti di ricerca. Ci permettiamo di fermare l’attenzione del lettore, ad esempio, sul saggio di Dario Frezza, frutto di una ricerca sul campo, che cerca di mettere in relazione e interpretare le diverse memorie, quelle delle violenze tedesche e quelle delle violenze alleate, che hanno lasciato una traccia profonda presso le genti della regione di Cassino. Un carico d’infinite piccole tragedie personali, spesso sepolte nel rifiuto di un’accettazione cosciente da parte delle collettività locali. Ciò ha portato al consolidarsi di uno strascico di dolore paradossalmente legato non solo alle violenze dei nazifascisti ma anche a quelle dell’ armata di «liberatori», costituita fra l’altro dall’Armée d’Afrique, che, per quanto abbia rappresentato un importante fattore di legittimazione della «nuova Francia» di Charles De Gaulle, nella zona del basso Lazio rimarrà invece per sempre legata all’immagine di una catena di stupri e violenze di barbara ferocia.
La parte più importante del libro è però costituita dalle decine di testimonianze orali o di memorie postume, se non erriamo quasi cinquanta, che consentono di delineare un quadro davvero apprezzabile del mondo femminile bresciano, in varia misura «militante» nella fase resistenziale. Cosa dire di queste testimonianze se non che sono davvero importanti, spesso capaci di generare vivide sensazioni, di mostrare la quotidiana drammaticità della vita di chi, giovane o meno giovane, si è trovato ad affrontare scelte spesso tragiche. Da ogni singola pagina, pur nella varietà delle condizioni sociali, delle esperienze culturali, delle tradizioni politiche e religiose, emerge il processo di liberazione da ataviche subordinazioni, certo un processo parziale e contraddittorio che rappresenta però la cifra più originale di quel fenomeno storico chiamato Resistenza.
È a questo livello che possiamo esprimere l’unico dubbio che ci è affiorato leggendo queste dense pagine, in particolare quando ci viene detto che rispetto a ciò che è testimoniato «ci vuole l’aiuto degli altri perchè il pensiero/ricordo si completi, si chiarisca. Ci vuole qualcuno che ripensi con noi (ovviamente s’intende i testimoni intervistati n.d.r.) o per noi e interpreti, trascriva e arrivi dove da soli non potremmo» (pag. 176). A chi scrive, invece, sarebbe forse piaciuto che venisse lasciato più spazio alla viva voce delle testimoni, se è il caso anche alle loro «ingenuità», al loro «non arrivarci»... che forse è in molti casi assai più istruttivo dei pericolosi processi di «interpretazione», che corrono il rischio di sovrapporre la voce di chi scrive alla genuina esperienza di chi racconta. Così ci si chiede: come non rimanere, almeno in parte, delusi davanti all’articolazione forse troppo riduttiva e semplificatrice data alla testimonianza, tanto per citare solo un caso, di Gina Perlotti, che ci parla molto di più con gli occhi dell’istantanea posta ad introduzione della sua intervista che non con le parole del testo ... Ed ancora: come leggere, senza il vivo sostegno delle parole stesse della testimone, la complessità di una memoria che sembra trovare il suo acme non nella tragedia della fase resistenziale ma nel dolente dramma del dopoguerra? La vera Resistenza di Gina Perlotti, ci pare di capire, non è stata quella che ha combattuto, con gli scarponi, contro i fascisti: allora i rischi erano ovvi e accettati come parte del «gioco». Ben più dolorosa è stata quella che la costringe a lottare, dopo il 1945, per la difesa della sua famiglia, per consentire a suo marito, partigiano pur di una posizione politica moderata, di trovare un dignitoso posto di lavoro, compiendo un gesto per l’epoca ai limiti della liceità morale. Per usare le parole di chi ha raccolto la testimonianza: «Gina arriva al punto di osare un gesto audace quanto disperato: si reca dal capo del personale dell’impresa per supplicarlo di dare un lavoro a suo marito. Poichè l’altro rimane impassibile, lei si strappa la camicetta e lo minaccia di dire che ha tentato di violentarla...».
Giunti a questo punto un dubbio: ben venga la storia della Resistenza di genere, dei generi, dei più diversi generi, ma come affrontare il problema della memoria della irrisolta eredità della Resistenza, per usare ancora le parole di Gina Perlotti, del destino di coloro che hanno lottato per la libertà di una patria che è stata «irriconoscente»?
Giulio Toffoli |