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 Nr.23 del 22/10/2007
 
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Dalla giustizia infinita al terrore infinito
L’esperienza quotidiana di ciascuno di noi è scandita dalle necessità concrete del lavoro, da ritmi che invece che divenire più umani si sono fatti sempre più pressanti, dal bisogno di resistere alla concorrenza meritocratica che è ritornata ad essere il parametro di riferimento del valore sociale dell’individuo, alla pari con la volatilità delle cose, la flessibilità e la precarietà dell’esistenza


  


Come condannare la tendenza a porsi dietro le spalle problematiche che, come quelle storico/politiche, appaiono lontane, avvolte da un’oscurità che spesso non è penetrabile se non da chi ha il tempo e le «conoscenze» che consentono di comprendere gli intrecci, le complesse manovre di manipolazione che rendono gli avvenimenti, anche quelli che appaiono ai nostri sensi come i più evidenti e certi, problematici fino all’indecifrabilità.
D’altronde il nostro paese è stato, come abbiamo fatto notare altre volte in questi nostri interventi, una specie di laboratorio delle «strategie della tensione», delle manovre di «insabbiamento» dove hanno operato per qualche decennio, in una incredibile condizione di «sovranità limitata», servizi segreti cosiddetti «deviati» e servizi segreti stranieri, che hanno fatto dell’Italia il campo di azione per le loro spregiudicate operazioni palesemente illecite. Una specie di laboratorio di una illegalità diffusa e legittimata.

Ci si dirà: «Eccessivo! Ideologico!»
La risposta è semplice. Si provino a leggere le memorie di William Colby, «La mia vita nella CIA» (Mursia, 1981), dove il direttore dell’«agenzia», nei caldi anni settanta, dice a chiare lettere che per le operazioni svolte in paesi come Italia e Cile: «si è sostenuto che gli Stati Uniti (e la CIA) non hanno alcun diritto di “interferire” negli affari politici interni di una nazione sovrana... Ora non si può negare che questo tipo di “interferenze” sia illecito. Secondo le leggi di molti paesi, come pure secondo il diritto americano, a un governo straniero è rigorosamente proibito immischiarsi nelle questioni politiche di un altra nazione. Ma l’illiceità non risolve il problema...».
Possiamo fermarci qui, inutile seguire il «buon» Colby sullo scivoloso terreno della moralità o su quello della superiore necessità, che tutto giustifica.
Ciò che è certo è che queste «interferenze» non solo hanno segnato la storia del mondo nella seconda metà del XX secolo, ma dopo l’11 settembre sono divenute realtà vivente in una politica internazionale dove gli USA si sono proposti come unici detentori della legittimità nel valutare virtù ed errore, verità e falsità, nel tentativo di imporre, tramite l’uso, ci si consenta, «terroristico» della forza il primato di una libertà e di una democrazia che sembra abbiano un marchio genetico legato al sistema di potere USA.

Sicuramente una svolta in questo processo storico è da individuare non tanto nel 1989, come molti vorrebbero far credere, ma nel colpo dell’11 settembre che si presenta all’occhio di chi ripensa alla storia, non come una pedissequa acquiescenza al potere e alle sue ideologie, ma come un vero problema aperto.
Più si scava a «ground zero» più emergono dubbi, falle nella ricostruzione ufficiale e contraddizioni che il «povero» George W. Bush, fra una gaffe e l’altra, non riesce più a nascondere se non cercando di imporre con crescente forza la sua «presidenza imperiale» (A. M. Schlesinger Jr.).
D’altronde la storia statunitense è piena di impresentabili manipolazioni dei fatti realizzate da diversi presidenti, fossero essi repubblicani o democratici, per gestire la loro politica aggressiva. Nel 1898 la corazzata Maine esplose nel porto de L’Avana: si trattò di un incidente, ma fu preso al volo come casus belli della guerra contro la Spagna. Similmente l’attacco giapponese a Pearl Harbour fu «provocato» dagli Stati Uniti per giustificare la decisione di F. D. Roosevelt di scendere in guerra contro gli stati nazi-fascisti. Infine, nel 1964 nel golfo del Tonchino la nave USS Maddox non fu mai attaccata da nessuno, ma quel fantomatico «atto di aggressione» servì a giustificare la guerra del Vietnam.

Ora, come leggere l’11 settembre? Il volume «Zero. Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso», curato da Roberto Vignoli per la casa editrice Piemme (2007, pag. 412, € 17,50), che raccoglie una serie di interventi di altissimo livello e che vede uniti in un’analisi di quel momento storico autorità come Giulietto Chiesa, Gore Vidal, Franco Cardini Gianni Vattimo, Tierry Meyssan e altri, rappresenta un affascinante strumento di meditazione su un problema come pochi altri controverso.
I diversi interventi, tutti, come dicevamo, di alto livello scientifico e intellettuale, offrono spunti per una analisi critica del trauma storico di quell’attentato. Difficile qui proporre, fior da fiore, una qualche strada di lettura, poiché proprio la varietà degli interventi costituisce una specie di itinerario di ricerca in cui ci si può muovere liberamente. Così, accanto ad una significativa indagine fra le pieghe de «Il Rapporto della Commissione sull’11 settembre... » si pone una affascinante analisi de «Il governo Bush durante e dopo gli attacchi dell’11 settembre rispetto a quattro possibili ipotesi di complotto» oppure una importante «Analisi scientifica del crollo degli edifici del World Trade Center» o la preoccupante lettura del movimento dei «Teocon. Politica, cultura, affiliazioni del movimento neoconservatore». Con le sconvolgenti informazioni che emergono dall’intervento di W. G. Tarpley «Anatomia di un coup d’état. Come le esercitazioni e le manovre del Pentagono sono divenute i canali chiave per gli attacchi segreti del governo l’11 settembre» ci possiamo fermare, scusandoci con gli autori degli altri interventi, tutti meritori di una segnalazione.
Certo gli ultimi sessanta anni hanno vieppiù evidenziato quello che per altro dovremmo già sapere da lunga pezza: come gli stati e i poteri abbiano un’incredibile forza che utilizzano senza porsi tanti problemi non solo per manipolare i fatti storici, ma anche per strumentalizzare le opinioni pubbliche dei diversi paesi trasformandole in materia prima di disegni politici che in molti casi hanno come finalità più la costruzione o la conservazione di oligarchie lobbistiche e autoritarie che la creazione di sistemi legali e rappresentativi.

Il caso dell’11 settembre è fra tutti quello più tragicamente problematico. Tutto ci è parso in quel pomeriggio chiaro e indubitabile; il disegno si è poi confuso e quello che ci rimane è un senso di profonda frustrazione, oltre a qualche guerra e alcune centinaia di migliaia di civili massacrati, che sono stati uccisi con una legittimazione, la «guerra infinita» contro il terrorismo, che con lo snocciolarsi dei giorni e dei mesi si mostra sempre più tragica e perversa.
Quasi un secolo fa le potenze imperiali europee che si autodefinivano democratiche e che rappresentavano l’Occidente lanciarono la loro sfida agli Imperi centrali con l’ideale motivazione che la guerra contro quelle monarchie, simbolo della tirannide, sarebbe stata «l’ultima delle guerre», la «guerra alla guerra». L’esito fu, come sappiamo, assai più prosaico: un centinaio di milioni di morti, due guerre mondiali, inenarrabili tragedie, diversi olocausti.
Cosa ci prepara la “guerra infinita”? Forse la lettura del volume «Zero» può fornirci qualche linea guida per leggere criticamente ciò che si addensa intorno a noi e, perché no, può spingerci a cercare di fare qualche cosa per prevenirlo.


Giulio Toffoli


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