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"Nel nostro modo di vivere, nel nostro governo, in ogni decisione che prendiamo, teniamo sempre conto della settima generazione che verrà dopo di noi. È nostro compito far in modo che le persone che verranno dopo di noi, le generazioni non ancora nate, abbiano un mondo non peggiore del nostro, e se possibile, ancora migliore. Quando camminiamo sulla Madre Terra posiamo sempre i nostri piedi con attenzione, perché sappiamo che le facce delle generazioni future ci stanno guardando da sotto il suolo. Non lo dimentichiamo mai". (Oren Lyons della tribù degli Onondaga, 1990)
Cantava De Andrè nell’antologia rivisitata di Spoon River. nella canzone dedicata al suonatore Jones (nel quale lui si identificava) : "In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenni. in un ballo di tanti anni fa". Le persone normali vedono con gli occhi, i poeti, gli artisti, i sognatori. vedono altro, vedono oltre. Io non sono un falco della poesia come De Andrè, piuttosto un tacchino che tenta il volo, ma sogno.
Abito in un condominio rovesciato, in una delle dodici villette a schiera rosa site nel comune di Villa Carcina. Ogni mattina da diciotto anni il mio primo pensiero è di scostare le tende della portafìnestra del soggiorno e di osservare le alture che ho di fronte. Ad un occhio normale, il paesaggio che si vede è il fianco di una montagna con alcune rare baite disseminate sulla sua folta pelliccia, ed enormi alberi sulla cresta. Non sempre, ma a volte, io vedo, o immagino di vedere, una fila di capi pellerossa. Mi pare di sentire le loro parole, i loro suoni, il rumore dei loro sonagli e degli zoccoli dei loro cavalli. A cinquantasette anni "suonati" il 24 ottobre 2007, sono riuscito a portare con me quel bagaglio di sogni, ingenuità e fascinazione, che hanno connotato la mia infanzia. A dieci anni leggevo Tex Willer (Aquila della notte). Blek Macigno, Salgari. A undici anni. Zane Grey. Oliver Curwood. Jack London. e anche se non c'era in queste letture un riconoscimento esplicito della cultura pellerossa, io ero affascinato da quel semplice e incredibile popolo. A dieci anni sapevo costruire trappole per volpi e per uccelli. A dieci anni costruivo archi di corniolo e frecce con aste di castagno e di nocciolo. Per le punte rubavamo dai camion in transito, manici di cucchiaio, che venivano trasformati con un lungo e paziente lavoro di seghetto e di lima
in innesti d'acciaio che trasformavano le semplici aste di legno in armi estremamente efficaci e pericolose. A dieci anni ero un "commerciante di pellicce". Vendevo ad un signore che chiamavano "l'uomo delle pelli di coniglio", non il frutto della mia caccia, bensì i regali che mio padre, i miei parenti, e gli amici di mio padre, mi consegnavano con estrema generosità. Non tutti. La pelle più grande la usai per costruire una faretra che tutti i ragazzi mi invidiavano. A dieci anni mi capitava di
girare per il paese con un enorme arco, e la faretra di pelle di coniglio da cui facevano capolino una decina di frecce ornate da piume bianche e nere. Avevo ai piedi un paio di mocassini che mi ero costruito da solo, ma penso che fu la cicatrice che avevo sulla guancia destra, una linea rossa a zig zag, lunga cinque o sei centìmetri, che ostentavo più che nascondere, che mi valse il nick name: Geronimo. Io non ho vissuto fisicamente come un indiano, ma spiritualmente ho condiviso il modo
di vivere dei pellerossa, che non si discosta poi molto dal comportamento che dovrebbe tenere un buon cristiano. Difendere i più deboli, mantenere la parola data, non essere al servizio del denaro, rispettare l'avversario, non diventare schiavo del lavoro, mettere l'amicizia al primo posto, ascoltare i sogni, rispettare i vecchi, amare i bambini. Queste sono solo alcune delle cose che ho praticato durante la mia vita.
Tutto questo per dire, che non mi ha stupito, la telefonata che la poetessa autrice dei "Canti di vulcano" Francesca Curti, mi ha fatto ai primi di agosto di quest'anno a nome degli "Amici della biblioteca di Gardone Valtrompia", invitandomi ad organizzare una serata dedicata ai nativi americani. Francesca non conosceva la mia passione per gli indiani. Chi ha guidato la sua mano quando ha composto il mio numero di telefono? Scriveva Capo Seattle nella sua lunga e toccante lettera del 1854 all'allora presidente degli Stati Uniti: "Quando l'ultimo uomo rosso sarà scomparso dalla terra e il suo ricordo sarà l'ombra di una nuvola che si muove sulla prateria, queste spiagge e queste foreste conserveranno ancora gli spiriti del mio popolo".
Mi piace pensare che alcuni spiriti liberi del suo popolo si siano fortunatamente reincarnati in alcuni artisti, giornalisti, filosofi e politologhi italiani: Marco Travaglio-Cavallo Pazzo, Curzio Maltese- Giacca Rossa, Vittorio Zucconi-Capo Giuseppe, Giorgio Bocca-Nuvola Rossa, Paolo Rossi-Piccolo Grande Uomo, Giovanni Sartori-Tecumshee. Umberto Galimberti-Toro Seduto.
Domenica 4 novembre, alle ore 20,30, in una sala della biblioteca ospitata nella villa Mutti- Berardelli, io, Mahem Pintossi, e Francesca Curti, accompagnati dalla magica musica di Vittorio Tregambe, cercheremo con racconti, testimonianze, e poesie, di rendervi partecipi del genocidio della Nazione Pellerossa. Queste mie righe non sono un invito ad essere presenti alla serata, (chissà quali gustose cose vi prospetta la televisione). Se l'argomento non vi interessa, state pure a casa. Preferisco che cinque persone siano presenti con curiosità all'evento, piuttosto che cinquanta esseri che pestano i piedi, magari per sfuggire alle mogli o ai mariti o ai figli o agli amanti siano presenti controvoglia. Come si evince dalla poesia che segue, non c'è peggior nemico, di quello che ci portiamo dentro, e noi possiamo fuggire da tutti e da tutto, ma non da noi stessi.
La poesia ha per titolo: "Una nuova canzone"
UNA NUOVA CANZONE
C'erano tutti sulla cresta della collina.
Chief Joseph, Giacca Rossa, Tecumshee, Geronimo
e altri capi in seconda fila.
La luce dell'alba filtrava tra le vecchie penne
E gli zoccoli nudi dei cavalli dipinti
mandavano telegrammi d'amore
alla terra calpestata.
Li vidi scendere lungo il dorso invernale.
le foglie secche dell'autunno, cantavano per loro.
Non chiusi la porta nell'uscire.
accesi una sigaretta
e mi avviai verso il torrente
che segava la valle come una ferita.
L'aria era secca, tagliente.
soffiai l'ultimo fumo verso il cielo.
Ci incontrammo in mezzo ad un'acqua,
gelida, arrogante,
i cavalli erano nervosi come un sonno agitato.
Nuvola Rossa mi porse il suo bastone di guerra.
"Sei tu stesso il tuo nemico. Toccati!" mi disse.
e tutto tremolo e svanì,
ed ero a casa mia,
il naso contro il vetro,
il sole mi trivellava gli occhi
e il mio cuore, vecchio tamburo
prese a rullare una nuova canzone. |