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 Nr.27 del 26/11/2007
 
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Delusione e disperazione
La diretta testimonianza di Domenico Zubani, ottantacinquenne inzinese: dalla delusione per il non riconoscimento del suo internamento in un campo di prigionia alla disperazione per la perdita della sua cara moglie


  


“Era l’8 settembre del 1942 quando fui chiamato alle armi. Ho giurato, ho servito la patria combattendo in Jugoslavia. Il 10 settembre 1943 fui preso prigioniero dai tedeschi e portato – con una mitraglia sempre puntata addosso – in Germania, ma non come civile (com’è stato detto dai “politici”) ma scortato da armati fino al campo di concentramento di Setter Rur VI° C ad Agen / Westfalia.
Il mio numero di prigionia fu il 62091. Qui incominciai il martirio. Per due anni al duro lavoro, sempre sotto scorta armata. Un pane al giorno da 1 Kg da dividere in sei. Per giunta percosso col nervo e mi rompono due costole.
Otto anni orsono mi scrivono che mi appartengono 13 milioni di lire. Dopo altri due anni me ne promettono quattordici. Nel 2002 mi arriva una lettera con cui mi dicono che non mi appartiene nulla … “perché non sono stato in un campo di sterminio”. Che si vergognino questi avvoltoi! Hanno beccato i nostri soldi! Chi deve rispondere di questa ingiustizia? Ed ora siamo rimasti in pochi per questa causa, per avere giustizia…
Sono stato chiamato dai Savoia, da Vittorio Emanuele III Re d’Italia. Mi mandano la Croce al merito di guerra! La Croce però non mi è servita per comperare un pane quando avevo fame!
Ora ho 85 anni. Teneteveli i miei soldi perché sto per non averne più bisogno. Il Governo mira solo al fatto che il tempo passi, così i creditori muoiono ed ecco che rimane tutto a loro, ai politici governanti. Sono degli insaziabili. Che si vergognino! Perché non ci hanno difeso?”.

“L’anno 2007 l’ho iniziato con molta gioia e con grande soddisfazione anche pensando agli anni passati. Per me e per mia moglie Anita Fontana, quanti sacrifici e quanto duro lavoro! Per mia moglie molti di più allevando quattro figli molto seri ed educati. Mi turba il fatto che io sono stato per tanto tempo lontano da lei. Ho lavorato per 15 anni in Asia, in Africa, in Perù. Lei, con tanti sacrifici, spesso sola e poche volte da me un conforto. Lei, la mia Anita, una donna molto coraggiosa ed amorevole. Avrebbe dato il cuore per la famiglia. Ma ho terminato la vita da emigrante e ho potuto passare diversi anni con la mia adorata sposa ed ora, in questo 2007, non mi mancava nulla.
Ma ecco che il nostro destino si è fatto nero. Ecco che il diavolo fa arrivare il 2 settembre scorso e la mia cara moglie mi ha lasciato. Erano le 19.25. Io l’ho abbracciata chiedendole: non stai bene? Lei mi ordinò un fernet caldo. Glielo feci subito. Glielo portai. La vidi appoggiata al letto. La raddrizzai tenendola abbracciata. Le diedi la tazza del fernet. Ne prese un sorso. Mi ha ridato la tazza e si è lasciata andare guardandomi con sospetto un istante. La presi stretta al mio fianco, senza immaginarmi quello che stava succedendo. La chiamai più volte. Anita cosa fai? Non fare così! Parlami. Non fare così! E ancora non mi rendevo conto. Ero furibondo. Ero solo. Oddìo, Anita non morire. Mi guardò come per dirmi: ciao, io sto morendo salutami i figli. Un attimo dopo non respirava più. Erano le 19.30. Morì. Non potrò mai dimenticare questi brutti momenti. Ora sono qui solo. Anche se ho i miei figli che mi vogliono bene. La mia vita non ha più senso senza la mia Anita. Sono disperato. So solo che sono rovinato, distrutto. Non mi resta che piangere. Senza di lei non mi sento di vivere...”


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