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Heaney Seamus è un poeta. Irlandese. Nel 1995 ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Aveva 56 anni. Terzo irlandese a vincere il prestigioso premio dopo William Yeats nel 1923 e Samuel Beckett nel 1969.
C'è una immagine ricorrente nell'opera di questo poeta, ed è quella del peat bog. È una espressione pressoché intraducibile, che sintetizza la natìa terra d'Irlanda. Una terra il cui humus è fertile e spugnoso. È torba, materia, argilla. È la memoria antropologica dell'uomo celtico. Che non ha nulla a che fare con il terreno paludoso e tanto meno con l'acquitrino.
Nato nell'Ulster (Irlanda del Nord) da una famiglia cattolica, il nome di Heaney può essere considerato l'autentico esponente di una attuale tendenza al regionalismo, di quel ritorno alle proprie origini, mitiche ed enigmatiche, di antico richiamo. Un mondo profondamente rurale, non c'è dubbio.
Egli concepì all'inizio la poesia come opera di scavo (gli è cara la memoria del digger, lo scavatore), nel terreno del linguaggio. Il risultato di ciò è un linguaggio originale e trasgressivo. Un linguaggio modernista. Che non ha nulla di quel brio né di quella spigliatezza barocca ed eccessiva di molti suoi connazionali, Joyce compreso. Piuttosto è intriso di quella perfezione cristallina che si avvicina molto ad alcuni suoi contemporanei inglesi.
Heaney, che è considerato da tempo tra i maggiori poeti viventi di lingua inglese, nel 1976 sceglie di stabilirsi a Dublino. Qui insegna letteratura inglese fino al 1984. Anno nel quale l'Università di Harvard lo chiama ad insegnare le discipline classiche di Retorica e oratoria. Cinque anni dopo vincerà la cattedra di Poesia di Oxford.
Nel 19799 esce la raccolta intitolata Field Work (Lavoro sul campo), che si apre con l'invocazione del poeta a farsi tutto parola e si chiude con una interessante prova di traduzione, dall'Inferno dantesco, dell'episodio del conte Ugolino. Una influenza dantesca ancora evidente nella raccolta di poesie Station Island, raccolta che prende il nome da un luogo di pellegrinaggio cattolico nella contea di Donegal. È una sorta di pellegrinaggio purgatoriale che compie l'uomo contemporaneo. Un viaggio allegorico. Un percorso interiore quasi fosse un cammino dantesco, narrato attraverso l'unione di più voci, ciascuna delle quali svolge un proprio disegno melodico. L'autore stesso dice, del poema, che era inteso come uno scontro fra due imperativi: restare fedeli all'esperienza storica collettiva oppure mantenere fede alla propria soggettività.
Negli anni Settanta e Ottanta del secolo appena trascorso, mentre le tensioni politiche tra i cattolici e gli ultrà dell'Ulster erano all'apice, nelle torbiere danesi avviene un importante ritrovamento archeologico: dei corpi, mummificati, di duemila anni fa. Hanno chiari segni di una morte violenta. Il poeta si identifica con questa scoperta. C'è l'incontro con le ombre della sua vita personale che appartengono alla realtà irlandese: l'archeologo, il militante dell'Ira, Joyce stesso… Heaney compone poesie nelle quali associa il destino delle vittime sacrificali dell'età del ferro ai "martiri" politici dell'Irlanda del Nord. Poesie come The Tollund Man (da Wintering Out), gli attireranno critiche severe da parte di chi giudica ambigua e addirittura equivoca una tale mitologia.
Ma non è questa la migliore poesia di Heaney. È quella lirica. Riprende la freschezza, il diretto contatto con la natura e con l'antica tradizione gaelica. Nella sua raccolta del 1991, Seeing things, Vedere le cose, c'è infatti un vigoroso ritorno alla fisicità, alla fedeltà, alla venatura, alla fibra stessa del mondo. Tessuta con un linguaggio originale. Perché i poeti cercano di disvelare l'incanto del mondo usando parole e linguaggi in modo originale. Con ciò rivelando connessioni che sfuggono agli altri. Così come fanno gli scienziati.
Ermanno Antonio Uccelli |