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 Nr.20 del 06/12/2010
 
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La comunicazione e l'ascolto attivo
La comunicazione è una relazione fra due o più persone, all'interno della quale noi riconosciamo i diversi beneficii che un ascolto produttivo può comportare. La comprensione del messaggio ricevuto, ad esempio, termine con cui si intende ciò che va oltre le parole e con il quale si favorisce l'empatia


  


Attraverso il ritorno della comunicazione, si incoraggia l'interlocutore a continuare l'interazione. Vi sono autori che sostengono come ascoltare significhi non solo percepire le parole, i pensieri e gli stati d'animo di coloro con i quali interagiamo, ma ancor meglio riuscire a percepire il significato e l'emozione più nascosta e inconscia del messaggio che viene enunciato dall'interlocutore.
L'ascolto consente di cogliere ciò che l'altro non dice ma comunica attraverso il linguaggio non verbale. Un ascolto che si basa su tre elementi fondamentali: il prestare attenzione, la verifica della percezione, il ritorno della comunicazione (feedback).
L'ascolto dell'Altro, il modo in cui si conserva e si mantiene con lui un contatto visivo e gli si dimostra attenzione e comprensione attraverso i messaggi non verbali, esprime all'interlocutore la sincerità degli scopi e il livello di importanza che gli si presta. Tutto ciò permette all'Altro di esprimere i suoi sentimenti e le sue emozioni, attenuando in tal modo una (eventuale) apprensione emotiva fatta di ansia, preoccupazione o paura.

Ascoltare è un'arte che non è facile da acquisire. Noi ascoltiamo dalle profondità del nostro essere, ma il nostro incontro è sempre alterato: i preconcetti e i nostri particolari punti di vista provvedono a ciò. Non siamo capaci di ascoltare direttamente, con semplicità. In noi l'ascolto avviene sempre attraverso lo schermo dei nostri pensieri, delle nostre impressioni, dei nostri pregiudizi. Per poter davvero ascoltare ci deve essere calma dentro di noi; una attenzione fluttuante, distesa, che non deve essere orientata ad acquisire qualcosa e, pertanto, come ben si comprende, non deve esserci il minimo sforzo. È proprio questo stato vigile – e tuttavia passivo – che è in grado di ascoltare quello che è al di là dei significati delle parole. Sia chiaro sùbito: le parole portano solo confusione. Esse sono un mezzo di comunicazione esteriore, ma per trovarsi al di là del rumore delle parole è necessario ascoltare in uno stato di vigile passività.
La maggior parte di noi è troppo occupata a raggiungere degli obiettivi. Ad ottenere dei risultati. Stiamo sempre cercando di andare oltre. Di conquistare qualcosa. Proprio per tutte queste variabili non siamo (mai) in grado di ascoltare davvero. Inconsapevoli del fatto che solo chi ascolta veramente può cogliere la melodia delle parole. E invece, perlopiù ahimè, noi ascoltiamo attraverso le nostre proiezioni, le nostre ambizioni, i desideri, le paure, le angosce…
Ascoltiamo solo quello che vogliamo sentire. Ascoltiamo solo quello che ci soddisfa o che ci lusinga. Quello che ci conforta o che attenua (anche momentaneamente) la nostra sofferenza. Poiché ascoltiamo (perlopiù se non quasi sempre) attraverso lo schermo dei nostri desideri, è ovvio che stiamo ascoltando solo la nostra voce: stiamo ascoltando solo i nostri desideri.
Ma esiste un altro modo di ascoltare? È importante scoprire come si possa ascoltare non solo quello che dicono gli altri, ma qualunque cosa: il rumore della strada, il cinguettìo degli uccelli, la voce di nostro marito o nostra moglie o quella dei nostri amici, il pianto di un bambino. En bref: ascoltare diventa importante quando smettiamo di proiettare i nostri desideri.
Domanda: possiamo mettere da parte tutti gli schermi che ci impediscono di ascoltare veramente? Difficile, per non dire difficilissimo. Perché siamo educati in questo modo e possiamo vedere per televisione il pessimo esempio che ci viene da chi partecipa a tutte le trasmissioni (nessuna esclusa), che quando qualcuno parla, non si sta in silenzio ad ascoltarlo, ma non ci pare vero di farci ronzare nella testa le idee più diverse. E così non ascoltiamo mai. Perché non ci interessa quello che gli altri hanno da dire. È come quando guardiamo un fiore: se fossimo capaci di guardarlo senza dargli un nome, senza classificarlo, senza stabilire a quale specie appartenga e così via; se potessimo solo guardarlo, in tal modo potremmo guardarlo veramente. Ma farlo, è una delle cose più difficili. Similmente, anche saper ascoltare è una delle cose più difficili. Che non sappiamo fare. Assolutamente.
Possiamo ascoltare con estrema semplicità solo quando non diamo spazio ad una idea o a un pensiero: allora c'è contatto diretto. E quando siamo in contatto, capiamo (sùbito) se quello che ci dicono è vero o falso. Non abbiamo bisogno di discutere. Come possiamo invece dire di ascoltare quando stiamo di continuo facendo uno sforzo per farlo?
Il nostro sforzo non è forse una distrazione che impedisce l'ascolto? Finché la nostra mente sarà impegnata a fare sforzi, a confrontare, a giustificare, a condannare, non possiamo renderci conto della verità. Non possiamo vedere il falso per quello che è.
Mi chiedo: ma a noi interessa davvero ascoltare? Oppure quello che ci importa è intervenire per tentare di modificare la confusione che ci portiamo dentro? Se noi ascoltassimo, cioè se ci rendessimo conto delle nostre contraddizioni, dei nostri conflitti, senza preoccuparci di costringerli ad entrare in un particolare schema di pensiero, (forse) questi finirebbero. Perché il punto è questo, secondo me: noi stiamo sempre cercando di essere qualcosa, di raggiungere uno stato particolare; vorremmo fare determinate esperienze ed evitarne accuratamente altre. È in questo modo che la nostra mente rimane sempre occupata. Non è mai tranquilla. Non è mai in grado di ascoltare il rumore delle sue lotte e delle sue pene.
Non siamo semplici… Cerchiamo sempre di diventare qualcosa. O di aggrapparci a qualche esperienza. E così non siamo mai liberi; ma il vero ascolto porta con sé la libertà.

La caratteristica principale di una buona comunicazione si fonda, per chi ascolta, nella abilità e nella consapevolezza di comprendere empaticamente l'altro; di intenderlo come persona nel suo malessere e di raccogliere i messaggi che ci sta inviando. Per poter assolvere a tutte queste istanze, chi ascolta si deve sganciare dai suoi modi di pensare e dal suo stile di vita (in una parola dal suo condizionamento), ed entrare nell'ottica dell'interlocutore. Solo in tale modo si riuscirà ad afferrare ogni sfumatura dell'essere di colui che stiamo ascoltando e ciò che egli realmente ci vuole dire. È scontato che per poter attuare questo compito è necessario porre l'accento sul linguaggio non verbale, (forse) la forma più antica di comunicazione in quanto implica – unitamente al contatto corporeo – fiducia nell'altro. Vi è, in ambedue i contraenti il rapporto interpersonale, quell'attenzione e quella apertura autentica che dimostrano nei confronti dell'altro la disponibilità a costruire un rapporto di autentico interscambio passando attraverso la dimensione del calore psicologico. Calore che rappresenta una attenzione positiva; un momento nel quale traspare piacevolezza, protezione e fiducia nella comunicazione. È certo un felice presupposto. Fondamentale per instaurare una buona relazione. L'essere espansivi ed empatici è una caratteristica personale che (forse) si può definire innata; ma che tuttavia si può sviluppare nel corso del tempo attraverso uno studio attento e mirato.

Il termine empatia deriva dal tedesco Einfuhlung e significa letteralmente "sentirsi dentro". Nelle relazioni interpersonali è fondamentale sentire ciò che l'altro prova; mettersi nei suoi panni, per capire. È importante, quindi, essere empatici. L'empatia implica un processo affettivo di introiezione dell'altro. Questo comporta la possibilità di sentire, all'interno di sé stessi, tutto quello (o quasi) che prova l'altro; anche grazie ai vissuti personali che fanno parte di ognuno di noi.
In tale processo è assai importante anche il distanziamento, cioè il ri-conoscere i sentimenti dell'altro mantenendo però intatta la propria identità, senza correre il rischio di fare proprie le sofferenze altrui.

Ermanno Antonio Uccelli


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