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IO ME NE ANDREI

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IO ME NE ANDREI
( VERSIONE TESTUALE )

Sono rimasto lì come un salame a guardare Giuseppe. Quell’estate io e il mio amico Danilo passavamo
ogni giorno davanti a casa sua con due bottiglie in mano, le riempivamo d’acqua alla fonte, a metà strada tra Graticelle e Bovegno. Giuseppe, sempre seduto su quella vecchia sedia a dondolo sul ciglio della strada.
La finestra e la porta di casa sempre spalancate, la musica a tutto volume “Dai, rifai quel letto su. Stai sempre a dormire tu, noi non ci prendiamo più per niente”. Sempre la medesima canzone, registrata più volte sulla stessa cassetta. Quel giorno di agosto, un caldo infernale, stranamente ero solo a riempire le mie bottiglie.
Quando si passava davanti a casa di Giuseppe si accelerava il passo, il cuore in gola, lo sguardo basso.
"È matto", dicevano tutti" Sempre seduto sulla sua sedia ad ascoltare la stessa melodia “Chi dice no, chi dice sì, mio Dio, però, voglio uscirne fuori”.
Distratto da chissà quali pensieri, mi sono ritrovato ad incrociare il suo sguardo. Come ipnotizzato, mi sono bloccato. È bastato un attimo per percepirne la devastante malinconia, quanto dolore in quegli occhi, quanta tristezza in quel silenzio. Sono rimasto lì come un allocco. “Una casa nel vento per ricominciare, per poi volare in alto”. Non so neppure se lui si sia accorto della mia presenza. Un secondo, un minuto, un’eternità. Il tempo aveva perso il suo senso, tanta era stata l’intensità di quell’incontro. La canzone finì: “Tu resta a dormire, tu. Io, io sto affogando giù da solo”. Vidi nei suoi occhi una pausa di smarrimento, di apprensione; si voltò di scatto verso la finestra, la musica era già ricominciata. Lui accennò un timido sorriso.
Le bottiglie, la fonte, Graticelle. Mi sentivo come se avessi vissuto in un’altra dimensione: confuso, svuotato, ma dentro di me una calma infinita. Nei giorni successivi chiesi informazioni sul folle Giuseppe.
Parole come depressione, esaurimento nervoso, latente schizofrenia non mi soddisfacevano. Soffriva, quell’uomo, di una malattia che accompagna la storia del genere umano. Dopo pochi giorni di matrimonio l’amore della sua vita l’aveva lasciato. Così, di punto in bianco, senza spiegazioni. Dei particolari, dei pettegolezzi, non mi sono mai interessato. L’estate successiva Giuseppe non c’era più, lontani parenti avevano deciso di mandarlo in una casa di cura. Con la sua sedia, con il suo registratore. Qualche giorno fa, trentacinque anni dopo, mi sono fermato davanti alla sua casa e ho rivisto quegli occhi in cui mi ero specchiato e ho risentito quell’insopportabile silenzio. “E poi vedrai, ma tu che vuoi, dicendo 'e
noi'? Che importa a noi?”


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