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LA LAPIDE

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LA LAPIDE
( VERSIONE TESTUALE )

Cammino nel bosco in una meravigliosa giornata di settembre, il sentiero comincia dietro la chiesetta di Graticelle.
Il sole è ancora caldo, le foglie ancora verdi, se non fosse per quella luce non più così
chiara, come una lampada alogena regolata sul minimo. Si intravedono le prime ombre dell’autunno (ho imparato a riconoscerlo dalla luminosità della luce).
Dopo pochi passi una lapide mi aspetta nascosta tra le foglie, il nome è ormai cancellato, si può leggere la data di nascita 1944 e quella di morte 1952. Un lampo illumina la mia memoria, quante volte da bambino passavo davanti a quella lapide in compagnia di mio nonno.
Rimanevo imbambolato tra lo stupore e il terrore, quella lapide era come una calamita, di nascosto, da solo, mi sedevo davanti rimanendo in silenzio a interrogare quella foto sbiadita in bianco e nero di un bambino dallo sguardo triste.
La storia di quel bambino comincia, o meglio finisce, l’ultimo giorno di scuola del 1952.

La colpa di quella fine fu di un maestro, un uomo ostinato che aveva preso a cuore l’istruzione di quei piccoli uomini che vivevano in montagna.
La sfortuna di S. fu proprio la sua propensione allo studio. Il padre si oppose in ogni
modo all’iscrizione del figlio alla scuola (“El gà de laurà come i so fradèi”).
La mamma, dotata di un sesto senso che solo le madri posseggono, aveva intuito la diversità di S. rispetto ai suoi fratelli. Aveva lottato contro il padre e contro i nonni che ritenevano inutile la scuola.
Lei inconsapevolmente sarebbe stata l’artefice di quell’omicidio, lei avrebbe portato sulla coscienza quella morte per tutta la vita.
S. con il suo zainetto doveva percorrere due ore di strada per arrivare a scuola. Freddo, ghiaccio, neve non fermavano l’entusiasmo di quel bambino.
Conservava i suoi tre libri come piccole reliquie tra il sarcasmo di suo padre (“sé maia mìa coi libèr”) e l’invidia dei suoi fratelli, perché ogni mattina scendeva in paese a incontrare i suoi coetanei mentre loro potevano scendere a valle solo la domenica.

Mai una assenza, alle 5 del mattino la madre lo svegliava con una carezza e lui la ricambiava con quel sorriso di chi ti sarà sempre grato per avergli dato una possibilità.
Bastava quel rito per cancellare tutti i dolori e le fatiche di quella madre.
Finalmente l’ultimo giorno di scuola S. fu premiato come l’alunno più meritevole. Gli fu regalato il libro di Pinocchio. Una gioia incontenibile al suono della campanella, si mise a correre a perdifiato verso casa.
Si immaginava lo stupore e la felicità negli occhi di sua madre, forse anche il babbo sarebbe stato orgoglioso di lui, forse…
Correva, correva, di colpo sulla mulattiera notò un pezzo di ferro.
Rimase incerto se raccoglierlo per giocarci o lasciarlo lì nel fogliame.
Corse via, il cuore gli batteva all’impazzata, poi si fermò, ci ripensò, lo regalerò a mio padre.
Cercò nelle foglie, eccolo! BOOOOM! Graticelle si fermò, quella detonazione riaprì
vecchie ferite, la guerra da poco finita… Corsero tutti, l’intero paese in direzione
dell’orribile frastuono.

Mio nonno arrivò per primo, macchie rosse avevano cancellato il titolo sulla copertina. Solamente un naso lungo era rimasto su quella pagina, solamente quel sangue il resto di S. Una mina di guerra non scoppiata, ecco la tragica sentenza.
Come all’ora piansi, furono le lacrime che mi rigavano il viso a svegliarmi da quel ricordo.
Scrivo per non dimenticare, perché quella storia è parte di me.
Quello sguardo del nonno, rimase scolpito nel mio cuore. Nei suoi occhi vidi la ferocia della vita e poi chissà qualche escursionista passato di là, di fronte a quella lapide, si ricorderà di S., il bambino dallo sguardo triste, del maestro, della sua mamma e dell’iniquità della vita.


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