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lunedì 29 aprile 2024 | 12:28
 Nr.2 del 18/02/2008
 
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IN BOCCA AL LUPO!



  



  


Nessuno dovrebbe più permettersi di rispondere: “Crepi il lupo!” Dobbiamo smettere di riversare sugli animali i peggiori aspetti dell’essere umano. È più di un secolo che i lupi non insidiano le mandrie o le greggi. Sterminati in tutta Europa prima della fine del novecento i lupi non sono più un pericolo, ammesso che per gli uomini lo siano mai stati. Mi raccontava un amico anni fa, che in Alaska (dove i lupi sono ancora numerosi) ha conosciuto nativi che in cinquant’anni non ne avevano mai avvistato uno. I lupi vedono più di buon occhio i nostri rifiuti che noi. Con questo non voglio affermare che i rifiuti siano più appetibili degli uomini, anche se qualcuno nel regno animale potrebbe pensarlo. In alcuni parchi italiani i lupi sono stati reintrodotti e non pare che questo abbia sconvolto la nostra vita. I capi sbranati sono ripagati, e vorrei sottolineare che sicuramente non ne vengono uccisi in numero maggiore di quelli sgozzati nelle macellerie islamiche o italiane a ridosso delle festività. Dovremmo stringere le mani attorno al collo della nostra ipocrisia e procurargli un’eutanasia veloce, perché forse è l’invidia che ci porta a rispondere: “Crepi il lupo!” L’invidia nei confronti di animali che mai hanno sopportato il giogo del collare. Il problema e che noi italiani in generale, amiamo più il ventre satollo dei cani che le costole magre e poco servili dei lupi, scordando che il collare lascia un segno profondo non solo sul collo, ma molto più all’interno, un collare che la televisione stringe ogni giorno di più. Sarebbe auspicabile che noi italiani fossimo lupi mancati, avremmo la speranza di ritornare alla foresta come esseri liberi. Purtroppo il presente ci fotografa come pecore, pecore consenzienti e consumanti, selezionate e condizionate ad hoc, prive di pensiero e di senso critico.

Pensavo a questo quando il poeta Mahem Pintossi mi telefonò una sera di tanti anni fa, (era il 9 marzo del 2001) chiedendomi di scrivere qualcosa su uno strano personaggio di Ludizzo, che per il secondo anno consecutivo aveva partecipato ad una competizione dura e cruda che chiamano Iditarod piazzandosi ex aequo al primo posto. Stimolato dal suo amore per la nostra valle e le sue storie, Mahem, con alcuni amici di Roberto Ghidoni, il protagonista dell’impresa, desiderando andare oltre l’indifferenza che il comune di Bovegno e la valle stessa dimostravano nei confronti di un atleta definito “poi” un orgoglio valtrumplino, aveva deciso di organizzargli una festa. Quando mi giunse questa richiesta, io non sapevo assolutamente nulla né di “Roby il lungo”, né dell’Iditarod. La cosa certa era che non avevo più di quarantotto ore per scrivere una poesia che parlasse della sua impresa. Fortunatamente il giorno dopo incontrai un amico, che mi riferì alcuni aneddoti della gara. Quello che mi colpì maggiormente tra i fatti che mi raccontò, fu che negli ultimi chilometri della competizione, un lupo nero ed enorme aveva corso a fianco del “runner” Ghidoni, pur se distante un centinaio di metri. Di primo acchito il titolo della composizione avrebbe potuto essere “Corre coi lupi”, ma dopo il film “Balla coi lupi” lo trovai scontato e poco confacente al carattere del protagonista.
Optai per “Lupo che corre”. Un nome pellerossa? Perché no? Anche la partecipazione ad una sola Iditarod, può essere paragonata alla cerimonia della “Danza del sole”. Era attraverso questo rituale che i guerrieri pellerossa dimostravano il loro coraggio, ed era digiunando e soffrendo in completa solitudine che ognuno di loro cercava la visione da cui avrebbe appreso il proprio nome, quello con la enne maiuscola, un nome che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Il nick name che i nativi del Grande Nord avevano coniato per “Roby il lungo” era “l’alce italiano”.
È credenza comune tra loro, che l’alce riesca a percorrere in media un centinaio di chilometri al giorno sul terreno innevato in cerca di cibo. Ho appurato che anche i lupi d’Alaska (canis lupus albus) coprono distanze analoghe, forti delle loro lunghe gambe e di zampe che per adattarsi all’habitat hanno raggiunto dimensioni considerevoli. Si sono rilevate impronte di circa dodici-quindici centimetri di diametro, quasi delle racchette naturali. Ma non fu solo l’incredibile prestazione di un uomo eccezionale, capace di emulare nella corsa, sia l’alce che il lupo, a connotare il titolo della poesia.

Pochissime tra le persone che io conosco, avrebbero lasciato un sicuro posto in fabbrica (in un periodo in cui gli operai godevano di discreti diritti), acquistare una decina di mucche e intraprendere una vita di sicure fatiche e di magri guadagni. E, seppure governare il bestiame, falciare i prati e abbattere gli alberi, rubasse la maggior parte del suo tempo, ho scoperto con piacere che Roby non ha mai omesso di dedicare piccoli ritagli del giorno alla lettura e alla meditazione. Fine dell’intermezzo. La stesura della poesia si protrasse molto oltre la seconda mezzanotte. Avevo promesso a Mahem Pintossi, valente poeta dialettale, che avrebbe avuto il testo per il giorno dopo, e avevo continuato a riscriverla per ore. La poesia, quella vera, è materia complessa e compressa, in poche righe avrei dovuto raccontare un paese vasto cinquanta volte l’Europa, gli animali che la popolano, l’impresa, il carattere del protagonista, la sua fatica, l’orgoglio mai domato dei suoi abitanti, i chilometri di silenzio bianco, il potere del gelo e le immense distese di neve.

Rimasi a lungo indeciso tra due finali, ma pensai che non potevo parlare del Grande Nord senza citare Jack London. Il testo ha per titolo:

“Lupo che corre”.

Nel paese, dove il vento soffia
la sua più gelida canzone,
dove l’orso è signore
e i lupi corsari feroci,
là, dove l’alce
si specchia curioso le corna
e le cime degli alberi
si conficcano come arpioni
nel costato azzurro del cielo,
là, sulla montagna “dente di cane”
hai perso e ritrovato la tua anima
per un numero infinito di volte
e solo il bambino che eri
ha potuto condurti
lungo i sentieri segreti
fino ai confini delle “terre cattive”
dove ho visto
il fantasma di Jack London
livellare con mani curiose
i graffiti profondi della tue impronte,
mentre gli spiriti danzanti
dei guerrieri Inuit
narravano alla neve silenziosa
una nuova leggenda,
la leggenda di “Lupo che corre”.


Questo fu l’inizio. In seguito, dopo numerose poesie nate dai lunghi colloqui con “Lupo che corre”, frutto non della mia fantasia, ma della sua rara capacità descrittiva, sia dei paesaggi che delle emozioni, proprio tre mesi prima della sua decisione di non partecipare a quella che sarebbe stata la sua settima Iditarod, preso com’era dalla stesura di un libro che racconta fin troppo onestamente le sue prime gare, proprio in quel periodo, una sera in cui mi ero ripromesso di scrivere di natura e di lupi, abbandonando per una volta; l’ironia, il sarcasmo, e la rabbia, mentre stavo cercando alcuni appunti tra le infinite scartoffie che ingombrano la mia scrivania, mi è capitata sott’occhio la frase di un celebre astronomo, tale Carl Sagan: “Ogni persona pensante ha paura di una guerra nucleare, e ogni stato tecnologicamente avanzato si prepara ad essa. Ognuno sa che è una pazzia, e ogni nazione ha una scusa”. In quel momento ho visto l’orologio atomico avvicinarsi pericolosamente alla mezzanotte del pianeta. “La banalità del male”, la stoltezza degli uomini, il potere della scienza e del denaro, assisi sui troni più alti della Terra e la premonizione che mai più “Lupo che corre” sarebbe tornato a gareggiare in Alaska, mi procurarono una tristezza indicibile. Avrei voluto pregare, ma sapevo che Dio era morto, frammentato nei miliardi di atomi di cui è composto l’Universo, presente e assente nello stesso istante, impotente davanti all’immensa stupidità umana.
Perciò, dopo aver guardato lungamente il fuoco, unica e consolante certezza, ho preso un foglio di carta, una penna a sfera, e con la speranza che almeno alcuni animali si sarebbero salvati, ho scritto la poesia che segue.



POW WOW
(THE YEAR AFTER)


C’è uno strano silenzio
al raduno voluto dai lupi,
i cuccioli guaiscono piano
dietro il cerchio di pelo delle madri.
Il branco dei caribou
ha trottato per giorni
sotto un cielo spettrale.
Gli alci stanno arrivando,
già i loro bramiti
scuotono gli aghi rossastri
delle morte foreste d’abeti.
I vecchi lupi
hanno perso parte del manto
e i licheni hanno forme giganti.
Rumori di tuono e funghi di fumo
hanno cancellato la vita
di quelli che camminavano eretti.
Non più tagliole,
niente proiettili,
nessuna esca avvelenata o esplosiva.
Un solo rimpianto,
l’odore e le impronte
di “Big feet”,
esse o esse d’amore
sullo stretto nastro di neve
della Lunga Pista.
Dorso Grigio lancia un lungo ululato,
(mille occhi volgono altrove smarriti)
e a tutti esso dice:
“Il nostro cuore è triste,
l’uomo che correva coi lupi
non tornerà più”.


Vaneggiamenti di un catastrofista? Fantasie da paradisi artificiali? Ectoplasmi da delirio alcolico? No. Semplice e genuina paura. Probabilmente la stessa paura che ha spinto il vincitore del premio Pulitzer 2007 Cormac McCarthy alla stesura di un libro agghiacciante che ha per titolo “La strada”.
Un romanzo che narra l’odissea di un uomo e di un bambino che viaggiano attraverso le rovine di una terra devastata e ricoperta di cenere, dove il sole stenta ad attraversare la coltre di nubi perenni, dove il freddo avanza senza tregua, dove non esistono più fonti d’acqua potabile, dove i sopravvissuti più forti e meglio armati, si cibano di altri sopravvissuti meno forti e meno armati, dove l’uomo-padre (forse anch’esso in parte responsabile dell’olocausto atomico) rappresenta il Passato, e il bambino-figlio, la flebile speranza di un improbabile Futuro. Un Futuro da costruire non più contro la Natura: Gli animali, gli alberi, l’acqua, il cielo, la terra, ma con essa, ritrovando l’antico rispetto, la simbiosi necessaria alla nostra ed all’altrui sopravvivenza.
Quelli di voi che non hanno altro Dio che lo schermo Televisivo, o che aspettano l’estrazione “dell’allocco”, per sapere se anche quest’anno potranno fregiarsi del cavalierato dei “TeleRinco”, possono trovare eccessive le mie preoccupazioni e le mie paure. Gli altri, i lupi, quelli che frequentano raramente i “canili” televisivi, e che trovano doveroso e civile usare altre fonti di informazione, potrebbero imbattersi in quello che segue, lo stralcio di un interessante articolo apparso quest’anno sul primo numero di Micromega a firma di Pierfranco Pellizzetti, il quale a pagina 73 scrive: “Ora, stando ai discorsi che circolano in Bilderberger (la società semisegreta che raggruppa l’elite planetaria), c’è perfino chi teorizza la necessità di riportare la popolazione mondiale a 600 milioni di abitanti; un dato compatibile con le capacità della biosfera e – al tempo stesso- il mantenimento degli attuali privilegi. Resta da capire come si intenda dare attuazione a questo “sfoltimento” non da poco: sterilizzazioni di massa o pulizie etniche? Bombe atomiche o diffusioni mirate di micidiali virus (nda)? Purtroppo i mondi della vita non vivono un’esistenza indipendente dalle decisioni del Potere. Su cui le predicazioni disarmate non hanno effetto alcuno”.

Hasta luego companeros! E mi raccomando: “Non prillate nel tubulo, lo Sgribio si potrebbe ingerbolare”.


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