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domenica 28 aprile 2024 | 23:05
 Nr.4 del 03/03/2008
 
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D’ANNUNZIO E LA RSI. UN PARADOSSO? FORSE NO!
Proprio in questi giorni si commemora il 70° anniversario della morte di Gabriele D’Annunzio, una figura che per la sua problematicità non smette di intrigarci


  


È lui il “vate” che ha favorito con la sua retorica interventista la scelta italiana di entrare nella Grande Guerra; è ancora lui che nel 1919, con la sua controversa impresa di Fiume, ha aperto una pagina nuova del “fare politica” in Italia, basata sull’esplicita insubordinazione alle autorità istituzionali; è lui infine che si è fatto, almeno in parte, mallevadore dell’ascesa del fascismo al potere.
Che poi il “divino” Gabriele sia rimasto schiacciato dal meccanismo di cui aveva favorito lo sviluppo e abbia ceduto la sua prerogativa di attore di un progetto politico di stabilizzazione sociale, voluto dalla borghesia italiana, in cambio di una comoda residenza sul lago di Garda è solo espressione della obiettiva fragilità dell’uomo e del suo disegno politico, tutto infarcito di estetismo e fondamentalmente incapace di leggere le pieghe della realtà storica al di là di una modellistica che si rifaceva alle ideologie tardo-ottocentesche e al suo profondo irrazionalismo.

Come leggere d’altronde la pubblicazione, con i tipi del Vittoriale nel 1935, del “Libro ascetico della giovane Italia” che inizia con le seguenti parole: “Con il pieno assenso di quell’alto compagno d’armi che oggi interpreta avvalora e conduce questo popolo novo…ecco che io posso offrire ai soldati della seconda guerra d’Africa, all’esercito delle nostre seconde gesta d’oltremare, il mio Libro ascetico, quasi breviario e sommario del mio costante amore, breviario e sommario “di tutta la giustizia contro tutta la ingiustizia” in sentenza pronunziata per bocca di Cristo…”? Inutile sottolineare che le gesta d’oltremare erano la guerra proditoria che l’Italia fascista lanciava contro l’Impero d’Etiopia e che si risolveva solo grazie all’uso di gas proibiti dalla convenzione di Ginevra, unico strumento per poter annientare le pur deboli milizie etiopi.
Come avrebbe D’Annunzio, dal suo rifugio di Gardone Riviera, vissuto la tragica esperienza che quasi inevitabilmente ci porta a unire il suo nome alla fase finale, funesta e luttuosa, del fascismo trasformato nel regime repubblichino di Salò?
Certo non è possibile ed è inaccettabile, la buon anima di D’Annunzio sia rassicurata, fare la storia con i se. Ciò nonostante, anche solo per un legame puramente geografico, un qualche nesso fra il “vate” e il definitivo fallimento del “suo alto compagno d’armi” ci pare possa essere istruttivo.

In questa prospettiva l’invito alla lettura di un volume pubblicato qualche anno fa “La RSI. La repubblica voluta da Hitler” a cura di Gianfranco Porta (Edizioni Ediesse, 2005, Euro 11, pag.223) ci sembra non inutile, non soltanto per la validità intrinseca del testo, ma anche come antidoto alle reiterate tendenze al revisionismo, più o meno strisciante, che sulle rive del lago si fanno sentire, stimolate da certe rendite accademiche e da una mai scomparsa tendenza a riprendere il ritornello montanelliano, “si stava meglio quando si stava peggio”, “allora i treni arrivavano in orario” e luoghi comuni del genere…
Il volume presenta una serie di interventi di storici che hanno presentato le loro ricerche a un convegno tenuto proprio a Gardone V.T. sotto gli auspici della CGIL. Gli interventi affrontano un ventaglio di tematiche che leggono, attraverso relazioni rigorose e insieme di facile lettura, alcune sfaccettature della breve parabola della Repubblica Sociale che spesso vengono sottaciute. Fra la decina di interventi, tutti meritori di attenta lettura, mi piacerebbe ricordare almeno quelli di Marco Borghi, “Funzionari, apparati e ministri della Rsi”, quello di Dianella Gagliani, “Mussolini e la scelta del partito armato” e quello di Mimmo Franzinelli, “I caduti sono tutti uguali? Gli ultimi scritti dei partigiani e dei soldati di Salò” che mettono a fuoco aspetti particolarmente originali del problema che indagano.
Prima di vedere perché ci pare particolarmente interessante fermarsi su tali pagine pensiamo che si debba leggere con particolare attenzione l’intervento di Dino Greco, “La Rsi settant’anni dopo”. Greco infatti, con grande coraggio, fa notare come esista una sostanziale, se pur sotterranea, linea di continuità fra l’Italia fascista, la Repubblica di Salò e la successiva realtà politica che, pur nata dalla Resistenza e segnata da un preciso fattore di discontinuità caratterizzato dalla elaborazione della Costituzione repubblicana, ha visto sopravvivere e agire movimenti neofascisti, che hanno fatto sentire negli ultimi sessant’anni la loro presenza con una scia infinita di ricatti e violenze. L’ultimo segnale di questa presenza può essere identificato proprio nella attività di revisione della storia caratterizzata da una, più o meno volontaria, rivalutazione dell’età fascista tramite una serie infinita di distinguo e di giochi sofistici con la finalità di equiparare chi lottava per la libertà e chi puntava a conculcarla, facendosi in più strumento di un oggettivo disegno di asservimento alla tirannia nazista.
Proprio quest’opera di revisione è messa in discussione dai vari interventi. Ad esempio Marco Borghi si sofferma con rigore, ma anche con un sorriso quasi bonario, sul trasferimento che viene realizzato all’inizio del 1944 di una parte degli uffici statali da Roma alle varie sedi del nord. Tale trasferimento comporta la più incredibile serie di resistenze, con il fiorire fra i burocrati, che hanno ben annusato l’aria di un mutamento ineluttabile, delle più incredibile forme di infermità. Realizzato, almeno in parte, il trasferimento, ecco scoppiare un ulteriore conflitto fra coloro che erano burocrati e si disinteressavano di politica e i “politici” che, presi dal clima di ultima Thule, vivevano quei mesi in una dimensione da tragica-operetta. I burocrati invece si preparavano a essere traghettati nella nuova dimensione repubblicana che, se risulterà almeno in parte rinnovata nel suo ceto politico, rimarrà stabilmente nelle mani di quel ceto burocratico che si era costituito proprio durante il regime. Diverso, ma non meno interessante, il punto di vista proposto da Dianella Gagliani che mette in discussione, con una serie di prove che ci appaiono difficilmente confutabili, l’idea di un Mussolini fuori gioco, disinteressato alle tematiche della politica e tutto preso invece a pensare alle coltri dove giacere con la sua amante. Dalle pagine della Gagliani viene fuori invece un Mussolini che ha perso la fiducia del periodo d’oro del regime ed è privo di quello smalto retorico che ne aveva fatto un modello per la stessa politica liberal-borghese di tutto l’Occidente degli anni venti e trenta, ma che non aveva per nulla abbandonato la speranza di una rivincita. Come il suo sodale di Berlino sperava in una possibile rivincita e per ottenerla realizza la trasformazione del partito in un organismo armato, una vera e propria “armata di ventura” disposta a commettere i peggiori crimini pur di vincere. Infine Franzinelli, facendo un confronto fra alcune testimonianze di partigiani e di combattenti di Salò, mostra in modo inoppugnabile la diversa caratura del progetto di coloro che combattevano sui due fronti. D’un lato stava chi aveva deciso che “l’obbedienza non era più una virtù” e anche nei momenti finali della vita rimaneva legato ad una laica speranza, forte della coscienza di aver combattuto per la pace e la libertà, dall’altro troviamo la riproposizione di modelli retorici, stantii e libreschi, ricavati dal peggior armamentario bellicista, nazionalista e razzista.
Gianfranco Porta è riuscito insomma a offrirci un libro di storia che supera la dimensione di una ricerca specialistica per presentarsi come una testimonianza che invita a meditare e a interrogarsi sul nostro oggi e in prospettiva sul nostro futuro.


Giulio Toffoli


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